02 novembre 2022 12:44

Per una star bambina la pubertà significa solo una cosa: la fine della carriera. Proprio mentre ti affacci alla vita adulta il mondo di manager, parenti e produttori che ti gira intorno ti fa sentire come un pensionato. Se sei un ragazzo di nome Michael Jackson e il tuo lavoro è sempre stato cantare è la tua fine. Ti cambia la voce e la tua magia svanisce: ti ritrovi come Cenerentola a mezzanotte e uno, vestita di stracci e appollaiata su una zucca spaccata.

Jackson descrive questa sensazione di acuta dissociazione in Moonwalk, la sua autobiografia del 1988 che, per quanto edulcorata, lascia intravedere squarci della sua infanzia negata e della sua adolescenza profondamente problematica. “La mia lotta più grande avveniva davanti allo specchio”, scrive, “la mia identità come persona era indissolubilmente legata alla mia identità di celebrità. Il mio aspetto ha cominciato a cambiare davvero intorno ai 14 anni. Sono cresciuto molto di statura. La gente che non mi conosceva entrava pensando di trovarsi davanti il solito Michael Jackson piccolo e carino e m’ignorava. Allora dicevo: ‘Sono Michael’, e loro mi guardavano increduli. Michael era un bambinetto paffuto e carino mentre io ero un adolescente allampanato di quasi un metro e ottanta”. A complicare le cose è arrivato anche un grave problema di acne, normale per un adolescente, ma catastrofico per una superstar che vive sotto le luci del palcoscenico o degli studi tv. Proprio a 14 anni Michael Jackson comincia a truccarsi (e apparentemente a “sbiancarsi”) per coprire i difetti di una pelle che non era più quella di un bambino e che nessuno intorno a lui accettava.

Michael deve cominciare a togliersi gli anni come una vecchia diva sul viale del tramonto

Quando i Jackson 5, la celeberrima boy band dei fratelli Jackson, incidono Dancing machine, il loro nono album per l’etichetta Motown, è il 1974 e Michael ha 15 anni. Già da tempo è lui la vedette del gruppo, quello che canta e balla meglio di tutti e che già da quando aveva sei anni era stato il prescelto dal fondatore della Motown Barry Gordy e mandato a vivere a Los Angeles con Diana Ross, che si sarebbe presa cura della sua educazione allo show business. A 15 anni Michael è inquieto e lo sono anche i suoi fratelli. Jermaine, l’altro vocalist principale del gruppo già quasi ventenne, Tito, Jackie e Marlon scalpitano e si sentono prigionieri di un vita scandita dai tempi industriali della Motown: prove, studio di registrazione, tour interminabili e interviste preconfezionate con la stampa. In televisione girano dei cartoni animati in stile Scooby-Doo che raccontano le loro avventure e tutti i bambini della classe media afroamericana vanno a scuola con il cestino della merenda ufficiale dei Jackson 5. Michael, che nell’economia del gruppo è l’eterno bambino prodigio, deve cominciare a togliersi gli anni come una vecchia diva sul viale del tramonto.

Ragione di scontento è anche il repertorio che la Motown sceglie per i ragazzi che, anche se sono ormai consumati performer e star internazionali, non hanno nessuna voce in capitolo su canzoni, arrangiamenti, coreografie o costumi. Barry Gordy e Joseph Jackson, il patriarca della famiglia, li gestiscono con piglio militare: decidono tutto, dal suono che devono avere i loro pezzi alle risposte da dare alla stampa durante le interviste. È un modello di gestione industriale e paramilitare delle boy band molto simile a quello che oggi si usa in Corea del Sud con gruppi celeberrimi come i BTS che, forse non a caso, si rifanno apertamente, nei look efebici e nelle coreografie, a Michael Jackson.

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Dancing machine è il compromesso che la Motown fa con le sue ex star bambine: un album già disco, con sonorità più contemporanee e canzoni più mature per evitare che, come lo stesso Michael già temeva, i Jackson 5 (che in quel momento comparivano come Jackson 5ive) si trasformassero in un oldies act, un gruppo nostalgico che avrebbe cantato in eterno I want you back e ABC in teatri sempre più vuoti.

Il suono di Dancing machine potrebbe essere descritto come una sorta di “progressive disco”. La formula della disco music nel 1974 non era ancora così rigida come sarebbe diventata nella seconda metà degli anni settanta e spesso, soprattutto se in mano a musicisti raffinati come il team della Motown che produceva gli album dei Jackson 5, la formula poteva comprendere elementi di fusion e di progressive rock.

Il brano che apre il disco, I am love, dura ben sette minuti e, ambiziosamente, si dipana in diversi movimenti. Parte come un morbido pezzo che già profuma di quiet storm, un sottogenere romantico del rhythm and blues tipico della metà degli anni settanta, per poi prendere quota e trasformarsi in una cavalcata strumentale piena di chitarre distorte dal pedale wah-wah e tastiere elettroniche. A cantare comincia Jermaine per poi dare spazio agli altri fratelli che si alternano ognuno con un verso. La voce di Michael, la seconda che si sente, colpisce subito: è ancora la voce di un bambino, ma ha il volume e l’incisività della voce di un adulto. Non è falsetto; è qualcosa di diverso, è una sorta di voce di contralto artificiosamente asessuata che quando vuole può tornare con naturalezza sulle note alte del soprano bambino. Si può dire che con Dancing machine Michael Jackson cominci a trovare la propria voce in una zona grigia tra i suoi due grandi maestri, Smokey Robinson e Diana Ross. E sarà la voce, ulteriormente distillata e raffinata, che userà in Off the wall, il suo debutto solista nonché ultimo grande monumento della fase terminale della disco music. Negli altri brani dell’album la voce di Michael si alterna a quella di Jermaine che, per quanto sia un ottimo cantante dotato di un timbro elegante e vellutato, si trova schiacciato dalla personalità dirompente del fratello più piccolo. Quello che per Jermaine è solo mestiere per Michael è sopravvivenza.

Il brano che dà il titolo all’album, Dancing machine, segna un altro momento importante per l’evoluzione di Michael Jackson. Nella coreografia rigidamente preparata per le apparizioni televisive riesce a introdurre un elemento nuovo dalla strada: il robot. Michael si stacca dalla linea dei fratelli che danzano in modo consueto per muoversi dinoccolato come un uomo meccanico. Una performance a metà strada tra il mimo e il b-boy e il primo assaggio della magia che sarebbe arrivata più o meno dieci anni dopo: il moonwalk. Michael a quindici anni conosce già tutti i trucchi del performer più consumato: costringere il pubblico a guardare dove vuoi tu, catturare la sua attenzione e ingannarla come un prestigiatore. I brani migliori sono quelli più propriamente disco, come The life of the party e soprattutto la straordinaria What you don’t know, basata su un groove spettacolare e un ritornello impossibile da dimenticare. Pezzi più tradizionali, come It all begins and ends with love, servono a tenere agganciati i vecchi fan dei fratelli Jackson che avrebbero voluto solo pezzi come la vecchia, zuccherosa e irresistibile I’ll be there.

Il disco si chiude con un pezzo complesso e dai toni funky e psichedelici intitolato The mirrors of my mind, in cui i fratelli armonizzano meravigliosamente in mezzo a un fiorire di flauti, conga e basso elettrico distorto.

Dancing machine era all’epoca un tentativo di attualizzare il suono dei Jackson 5, ma soprattutto, riascoltato oggi, è a tutti gli effetti l’inizio della consapevolezza del giovane Michael Jackson come cantante e interprete. Quella che si sente nella sua voce adolescenziale ma già artificiosamente modulata è la volontà di rivalsa, quasi una rabbia sottocutanea mascherata da dolcezza, un atto estremo di sopravvivenza nell’unico mondo reale che conosceva: quello del business musicale.

The Jackson 5
Dancing machine
Motown, 1974

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