22 novembre 2022 13:32

La musica in streaming è una grande invenzione e non tornerei mai indietro. Però la dissoluzione del supporto fisico ci ha tolto la possibilità di inciampare in certe coincidenze che possono capitare solo nelle note di copertina dei dischi. Nelle fittissime note di ringraziamento di Grace di Jeff Buckley, il suo celeberrimo primo e unico album in vita, leggiamo un misterioso “I love you Jhelisa A”. E chi sarà mai questa Jhelisa A che lui dice di amare?

Jhelisa Renee Anderson è una cantante di Jackson, Mississippi, che ha inciso il suo primo album, Galactica rush, nel 1994, lo stesso fatidico anno in cui Buckley fece uscire il suo Grace. I due si conoscevano perché Jeff, ancora giovanissimo, suonava la chitarra nei suoi demo alla metà degli anni ottanta. A quell’epoca Jhelisa era stata appena licenziata dal suo lavoro di receptionist alla Motown di Los Angeles ed era finita a lavorare alla Capitol, dove aveva conosciuto Buckley. Anderson è la nipote di Vicki Anderson, storica vocalist della James Brown revue – “la migliore cantante con cui abbia mai lavorato” secondo lo stesso Brown – e anche sua cugina Carleen è una cantante di successo: con gli Young Disciples è stata una delle voce più note della scena acid jazz londinese a cavallo tra gli anni ottanta e novanta.

Ed è proprio a Londra che decolla anche la carriera di Jhelisa. Nel 1989 firma un contratto con l’etichetta One Little Indian come vocalist della band Soul Family Sensation, con cui incide I don’t even know if I should call you baby, un pezzo pioneristico che ha anticipato di pochi mesi certe soluzioni che avrebbero fatto di Unfinished sympathy dei Massive Attack e Shara Nelson un pezzo così memorabile. Jhelisa però non trova pace in uno stile preciso: la Londra dei primi anni novanta è un laboratorio musicale molto più variegato e stimolante della Los Angeles che si è lasciata alle spalle. Come vocalist del gruppo rave-pop The Shamen ottiene due grandi successi con Phorever people e Lsi (Love sex intelligence): erano gli anni in cui nelle classifiche britanniche finivano pezzi pop dance psichedelici ed esoterici sulle percezioni extrasensoriali, sullo sciamanesimo e, naturalmente, sull’ecstasy come grimaldello per aprire le porte della percezione. In quegli anni trova anche il tempo per fare da corista in diversi pezzi di Debut, il primo album di Björk.

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Esoterismo, spiritualismo e psichedelia sono molto nelle corde di Jhelisa quando comincia a lavorare su Galactica rush, un album che sfugge a qualunque definizione. Quando esce, sulla scia del singolo Friendly pressure, viene classificato come trip-hop (nei primi anni novanta qualunque cosa non fosse brit pop era etichettata come trip-hop), anche se è in realtà un album nu soul con molti elementi di acid jazz, di spiritual jazz e di hip hop. La vocalità di Jhelisa ha qualcosa di religioso, sia nella sua ovvia origine gospel sia nel suo afflato cosmico e spirituale che ricorda alcune delle sperimentazioni più recenti di Erykah Badu.

Il disco si apre in modo piuttosto spiazzante con il pezzo che dà il titolo all’album: la voce autorevole di Jhelisa si fa largo tra improvvisazioni e dissonanze che sanno di free jazz. Non potremmo essere più lontani dal trip-hop da lounge bar che cominciava a diffondersi in quel periodo.

There’s nothing wrong raddrizza la barra e ci restituisce un groove anni settanta che ricorda molto da vicino certe soluzioni di Me’shell Ndegéocello. Hold my peace si sposta in territorio progressive hip hop; si sviluppa organico e caldo come un pezzo dei Jungle Brothers o degli A Tribe Called Quest. Tutto questo spostarsi da un genere all’altro non ha nulla di artificioso: Jhelisa riesce a creare sempre un suono molto naturale, rilassato e caldo. Erykah Badu stava sicuramente prendendo appunti: qui c’è lo stesso groove jazzy che lei avrebbe con successo ricreato qualche anno dopo nel suo debutto Baduizm.

Friendly pressure è il singolo di punta dell’album: comincia con un paio di accordi di chitarra acustica per trasformarsi in uno dei pezzi tra funk e acid jazz più belli della prima metà degli anni novanta. Riascoltato oggi colpisce per una produzione ariosa e spaziosa a cui non siamo più abituati, così ossessionati dalla compressione dei suoni, soprattutto nella musica dance. Death of a soul diva è un’altra delle perle nascoste in questo forziere: è un pezzo talmente potente che anni dopo è stato anche ricantato dalla grande Chaka Khan.

Galactica rush si chiude con un pezzo lungo e meditativo, sostenuto da un insinuante tappeto di tabla, intitolato Secret place, un’oasi di pace a conclusione di un album troppo complesso e indefinibile per avere davvero successo quando uscì. Eppure Jhelisa aveva messo insieme tanti elementi che sarebbero maturati nel corso del decennio e portati al successo da altri artisti, forse meno liberi e creativi di lei.

Jhelisa
Galactica rush
Dorado, 1994

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