21 febbraio 2023 15:34

Questa storia comincia nei primi anni novanta negli Stati Uniti, in una piccola chiesa evangelica a Portsmouth, in Virginia. Nicole Monique Wray ha appena 15 anni ed è già apprezzata come solista nel coro della chiesa. Una domenica sua mamma chiede alla congregazione una preghiera per Nicole che andrà a fare la sua prima audizione importante con i produttori Jimmy Jam e Terry Lewis, già collaboratori di Prince e artefici dell’enorme successo di Janet Jackson. Il pastore della chiesa nega pubblicamente alla ragazza la preghiera perché lasciare il gospel per la musica secolare sarebbe “opera del diavolo”. La giovanissima cantante si sente umiliata, ma capisce subito che la sua vita è nella musica pop più che nel gospel, e soprattutto capisce che per crescere deve allontanarsi da casa.

Il riscatto per lei arriva qualche anno dopo quando una giovane rapper e producer della Georgia di nome Melissa Elliott (non era ancora famosa come Missy “Misdemeanor” Elliott) le fa un’audizione e la chiama a collaborare con lei nel suo album di debutto. Nicole Wray ottiene un contratto con la Elektra e, con la produzione di Missy Elliott e Timbaland, nel 1998 incide il suo singolo di esordio: Make it hot. Il pezzo è un successo istantaneo nelle classifiche rnb e Nicole Wray comincia a essere una presenza fissa, insieme ad Aaliyah e a un’altra giovane cantante del sud di nome Tweet, nell’entourage di Missy Elliott.

Il successo vero però non arriva: Nicole Wray ha qualcosa della giovane Aretha Franklin sia nella versatilità vocale sia nell’inquietudine e nell’ambizione di una ragazza di chiesa che vuole sfondare. Quando il suo secondo album viene, come si dice in gergo discografico, shelved (ovvero messo da parte e mai fatto uscire), Wray decide di giocarsi tutto e di lasciare la Elektra e la protezione di Missy Elliott e Timbaland. Come cantante è rispettata e come artista ha costruito una solida credibilità hip hop. Missy Elliott aveva visto in lei una giovanissima Mary J Blige e non aveva torto: Nicole, grazie alla sua formazione nel gospel, si muove bene sia nel soul più classico sia nel rap; il suo è un talento quasi troppo debordante per essere imbrigliato nelle regole e nei generi delle etichette discografiche che, in quei primissimi anni duemila, erano a caccia del prossimo grande fenomeno dell’rnb.

Quando ottiene un nuovo contratto con l’etichetta hip hop Roc-A-Fella, Nicole pensa di aver finalmente trovato una casa, ma sbaglia anche stavolta: canta qua e là, scrive per altri artisti, ma la sua nuova musica non verrà mai fuori. Eppure Damon Dash, il fondatore dell’etichetta insieme a Jay-Z, apprezza la sua etica del lavoro: paragona la sua capacità di scrivere canzoni su canzoni alla prolificità del rapper Tupac Shakur. Nicole Wray è delusa e si rassegna all’idea di non poter mai essere una star. Ma non lascia la musica e non tronca i rapporti con la Roc-a-Fella; è troppo capace e ha troppo da dire sia come vocalist sia come autrice.

Tornare in Virginia dopo aver sfiorato la fama per lei è una grandissima umiliazione. Quando la rockband The Black Keys, attraverso Damon Dash, la chiama a partecipare a quella fusione di rock bianco, blues elettrico e hip hop che è l’album Blakroc, per Nicole Wray è uno dei tanti lavori che accetta come turnista. In realtà quella collaborazione risveglia il suo amore per il soul classico e la porta a un radicale ripensamento del suo stile e della sua musica. La sua priorità non è diventare una pop star, ma scrivere canzoni oneste e cantarle con quella voce a cui tutti, fin da quando era bambina in chiesa, riconoscevano una sorta di “healing power”, una capacità di guarigione. E questa capacità della musica di lenire il dolore, di curare le ferite, è il germoglio che dal gospel ha fatto fiorire il grande soul degli anni sessanta.

Dopo aver cantato nelle produzioni futuribili di Missy Elliott e Timbaland (Make it hot sembra ancora oggi un pezzo rnb concepito in un’astronave) e aver bazzicato il gangsta rap, Nicole ritrova la sua voce nel soul classico e rimette a punto la sua carriera. Io preferisco parlare di soul classico e non di retro-soul, un’etichetta che secondo me svilisce il lavoro di tanti musicisti e interpreti di oggi sottolineandone solo l’aspetto manierista e nostalgico.

Lady Wray, Do it again

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Queen alone, l’album di debutto della nuova Nicole, che ora si fa chiamare Lady Wray come a richiamare la nobiltà e l’autenticità delle sue radici nel gospel e nel soul del sud, è tutt’altro che un lavoro rétro. È soul classico, prodotto e registrato a New York nello studio di Leon Michels e Thomas Brenneck, alfieri del ritorno al rhythm ’n’ blues degli anni sessanta e settanta. Brenneck è stato, fin dall’età di vent’anni, chitarrista dei Dap-Kings, la band della grande Sharon Jones e, occasionalmente, di Amy Winehouse.

La prima a non voler parlare di retro-soul è proprio la stessa Wray che alla rivista American Songwriter ha detto: “La musica che faccio oggi è una mescolanza di tutto: dai miei inizi con Missy Elliott fino al rock dei Black Keys”. E la musica che fa oggi, da artista adulta che ha vissuto mille vite musicali, è la musica di una signora, anzi di una regina. Ma di una regina eccentrica e sola che riflette sugli alti e bassi della sua vita. L’album della riscossa di questa regina senza corona si apre con un pezzo che s’intitola It’s been a long time (“È passato un sacco di tempo”) e che è quasi un manifesto: “Mi sono andata a nascondere? Ho sprecato tutto il mio tempo? No no no, il mio cuore batte, sono viva come un bambino appena nato e oggi è il giorno del successo”. Ci è voluto un sacco di tempo ma la piccola Nicole Wray che ha cominciato la sua carriera in salita con un sacerdote che l’accusava di collaborare con il demonio, ha trovato la sua vera voce.

Queen alone è pieno di canzoni che parlano della sua vita senza nascondere gli spigoli del suo carattere. Do it again sembra uscito da Back to black di Amy Winehouse: è l’addio a un amante a cui si confessa di non essere state perfette. “Tu sai tutte le cose che ho fatto, buone e cattive”, canta. “E il nostro momento è passato… l’amore non abita più qui”. Eppure Nicole rifarebbe tutto: “anche se il nostro momento è passato e se abbiamo perso tutti e due”. Guilty è una canzone per il fratello finito in carcere: “Non sai che sei sempre con me? In ogni momento della giornata?” E Underneath my feet è un feroce blues rock per umiliare un amante infedele: “Ora è il tuo turno di soffrire e piangere, non sarò contenta finché non ti vedrò strisciare ai miei piedi”. “Sono una donna vudù e ti faccio un maleficio”, canta citando obliquamente I put a spell on you di Screamin’ Jay Hawkins.

Dopo tante confessioni e tanti drammi l’album si chiude con un pezzo perfetto nel suo ottimismo: Let it go, molla tutto, lascia andare: “Se vuoi dire al tuo amante che è finita (lascia andare), se vuoi dire al tuo spacciatore che sei pulita (lascia andare)… baciami ora perché il domani è già invecchiato”. Lady Wray si riprende il suo presente e intende giocarselo a modo suo.

Queen alone è un album soul immacolato, senza un pezzo debole: e non fate l’errore di considerarlo un disco nostalgico. Il linguaggio è quello del soul classico ma la voce di Lady Wray, le storie che racconta e le parole che usa sono assolutamente quelle di un’artista di oggi. Senza Missy Elliott e Timbaland, senza Jay-Z e senza Damon Dash, senza il rock bianco dei Black Keys non avremmo questa straordinaria artista che merita molta più attenzione di quella che riceve.

Lady Wray
Queen alone
Big Crown Records, 2016

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