28 febbraio 2023 14:28

Nel 1985 la band anglotedesca Propaganda, con l’album A secret wish e in particolare col singolo p:Machinery, aveva ampliato i limiti del synth pop facendolo sconfinare nel kraut rock, nel rumorismo e nella performance art. p:Machinery era un pezzo di teutonico cyber-pop che parlava di macchine pensanti e intelligenze artificiali capaci di sognare. “Siamo gli Abba che vengono dall’inferno”, aveva detto la cantante Claudia Brücken alla stampa per descrivere il lavoro del suo gruppo.

L’etichetta discografica dei Propaganda era la ZTT (da Zang tumb tumb, il poema futurista di Filippo Tommaso Marinetti), la stessa di Frankie Goes to Hollywood, Art of Noise ed 808 State. Alla metà degli anni ottanta la ZTT trattava la musica pop come un manufatto di arte concettuale da vendere al pubblico attraverso un marketing barocco e sperimentale orchestrato dal giornalista Paul Morley, cofondatore dell’etichetta. Ogni uscita della ZTT aveva una grafica misteriosa e piena di livelli di lettura in cui perdersi; quello che trovavi in un album in vinile poteva essere diverso da quello che trovavi sullo stesso album in cassetta o in cd. Nei singoli, in particolare negli ep, il marketing creativo della ZTT si scatenava: raramente la canzone era presentata nella versione che si sentiva per radio o sui canali televisivi musicali. E le versioni estese dei pezzi, gli extended mix, non erano pensati solo per le discoteche e per i dj: erano espansioni molto sperimentali e a volte piuttosto ostiche. Le tracce inedite presenti sui singoli (quelle che all’epoca si chiamavano b-side) erano pezzi altrettanto spigolosi e bizzarri. Se sentivi una canzone dei Propaganda alla radio o in tv e andavi a comprarti il singolo tornavi a casa con qualcosa di assolutamente inaspettato, sicuramente non con un banale radio edit e una versione strumentale nel lato b.

Snobismo e decadenza
Nel 1986 i Propaganda si sciolgono per beghe contrattuali. Claudia Brücken rimane sotto contratto con la ZTT, così insieme al musicista scozzese Thomas Leer forma gli Act, un duo dalla vita breve ma intensa. L’idea di Brücken e Leer è quella di continuare a forzare i confini del synth pop, genere musicale anni ottanta per eccellenza, e spingerlo in un retrofuturo di pop funk elettronico e cabaret postapocalittico. Le loro canzoni hanno qualcosa di brechtiano nella loro critica feroce del thatcherismo e della società dello spettacolo. La loro è pop dance da incubo che parla di abiezione morale, manipolazione delle folle e indifferenza davanti ai mali del mondo. Gli Act hanno il nichilismo di certo post punk unito a un’amarezza molto tedesca e a uno humor molto inglese. E più che un istinto per la musica pop sembrano avere una bizzarra propensione per il teatro musicale.

Il primo singolo degli Act esce nel maggio del 1987 e s’intitola Snobbery and decay (“snobismo e decadenza”). In quattro minuti di pop dance iperprodotta da Stephen Lipson gli Act concentrano il buono, il brutto e il cattivo (e il kitsch) di tutto il synth pop degli anni ottanta. La produzione di Lipson, già assistente di Trevor Horn nella realizzazione di Slave to the rhythm di Grace Jones, il singolo più costoso mai realizzato nella storia della musica pop, è iperattiva e maniacale nei suoi infiniti dettagli sonori.

Snobbery and decay è un duetto tra Brücken e Leer che sembra un pezzo degli Abc di The lexicon of love sotto steroidi. Sulla copertina del singolo compaiono due personaggi che fanno da numi tutelari al progetto: l’attore Quentin Crisp e il pianista Liberace, due artisti che hanno dedicato la loro vita al camp e all’artificio. E il video della canzone, una sorta di fantasia di decadenza hollywoodiana, tra capitelli di cartapesta e abiti che ricordano gli scatti di Richard Avedon, vede Claudia Brücken e Thomas Leer sorridere forzatamente per i paparazzi e danzare in modo goffo e scomposto, come se fossero ubriachi di champagne, fama e privilegio.

Snobbery and decay è una parodia dell’ossessione per la celebrità così tipica della seconda metà degli anni ottanta (e tutto sommato anche di oggi). I valori ipercapitalisti dell’Inghilterra thatcheriana sono ormai stati assorbiti dalla società e vengono rigurgitati dai mezzi d’informazione sotto forma di glamour da quattro soldi e di ricchezza ostentata. “Fantasia, estasi, sogni di alta moda e oscenità” scandiscono i due cantanti, prima di lanciarsi nel verso forse più genuinamente brechtiano del pop degli anni ottanta: “Alla vostra salute e alla mia, all’aristocrazia del futuro / Proprietà, povertà e un’economia volatile”. C’è anche un verso che dice: “Obsession, just like Calvin Klein” che potrebbe sembrare un product placement se non fosse per il contesto assurdo in cui è incastrato.

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Tra le canzoni extra che compaiono sull’ep (in vinile o, novità di quell’anno, in cassette single) di Snobbery and decay c’è un altro duetto: I’d be surprisingly good for you dal musical Evita di Andrew Lloyd Weber. È il canto di seduzione dell’attricetta Eva Duarte che incontra di nascosto Juan Perón e lo convince che insieme potranno conquistare l’Argentina. Thomas Leer ha spiegato che lui e Brücken hanno scelto la canzone proprio perché odiavano cordialmente sia il personaggio di Eva Perón sia, soprattutto, il musical di Lloyd Weber.

L’Evita di Claudia Brücken non è ipocritamente timida o sottomessa neanche quando canta “ Sono colpita, io che sono solo un’attrice… Mi perdoni se posso sembrarle ingenua…”. È piuttosto una Lady Macbeth che, con accento tedesco alla Marlene Dietrich, sibila nell’orecchio di Perón: “La ragione per cui mi hai notata è perché hai capito che sarò sorprendentemente utile per te”. Agli Act interessa raccontare cosa succede quando il potere incontra lo spettacolo, senza alcuna simpatia per i personaggi. L’attricetta e il militare, alleandosi e fondendosi uno nell’altra, creano una nuova, mostruosa forma di populismo che fa leva sul glamour del cinema e dei rotocalchi. Tutto questo in anni innocenti in cui nessuno ancora sospetta che di lì a una manciata di anni un importante paese europeo sarebbe stato governato dal padre padrone di una serie di tv commerciali che avrebbe messo le sue soubrette a fare le ministre.

Un album suicida
Il pop degli Act è troppo sofisticato e politicizzato per sfondare in quello che sarà ricordato come l’anno di Rick Astley. Snobbery and decay, come singolo, è un fiasco: si arena al numero sessanta della classifica britannica. L’etichetta decide di aspettare un po’ per far uscire un album. Laughter, tears and rage (Risate, lacrime e rabbia), il loro primo e ultimo lp, uscirà quasi un anno dopo: il 27 giugno del 1988. Il marketing creativo della ZTT non aiuta le vendite: vinile, cassetta e cd hanno contenuti diversi, per non contare la pletora di remix e di b-side che compaiono nei singoli successivi. Singoli che vengono puntualmente ignorati dal pubblico o addirittura ritirati dall’etichetta prima ancora che raggiungano i negozi.

Eppure Absolutely immune, una meditazione sulla nostra abulia davanti ai mali del mondo (annientamento atomico, carestia e ingiustizie), era un ottimo pezzo pop dance e Chance, una parodia della società capitalistica vista come un telequiz in cui si vince tutto o si perde, aveva il suo fascino. Laugher, con i suoi bassi e la sua struttura più agile e orecchiabile, sarebbe stata un ottimo singolo da classifica, invece langue sepolta in una tracklist capricciosa e imprevedibile, sicuramente non pensata per rendere accessibile al casuale ascoltatore radiofonico la musica degli Act. Tra i pezzi più bizzarri (e forse oggi un po’ inspiegabili) dell’album compare una cover (ancora una volta sotto forma di duetto) di Heaven knows I’m miserabile now degli Smiths. Brücken e Leer, forse con un’acrobazia concettuale di troppo, la trasformano in uno straniante numero da cabaret.

Laughter, tears and rage è stato una sorta di attentato suicida. Nel 1988 quel pop labirintico, patinato e intellettualizzato non poteva andare da nessuna parte. Però, se li si mette in prospettiva, pur non avendo venduto una copia, gli Act hanno avuto il loro effetto esplodendo come una bomba.

Il synth pop come lo conoscevamo negli anni ottanta, anche per opera loro, è crollato sotto il peso delle sue stesse ambizioni. I Depeche Mode per poter sopravvivere negli anni novanta sono dovuti praticamente emigrare negli Stati Uniti e anche gli Eurythmics, con il coraggioso e allucinato album Savage, sempre uscito nel 1988, hanno autosabotato la loro stessa formula. Gli Abc si sono rifugiati nella house music e nella dance e gli Human League sono corsi a Minneapolis a farsi produrre da Jimmy Jam e Terry Lewis. Laughter, tears and rage degli Act ha il fascino irresistibile dei progetti troppo ambiziosi e rimane un monumento alla dispendiosità, al gigantismo e alle manie di grandezza del pop di fine anni ottanta. Quella impudica e impunita opulenza di mezzi, d’idee e di suoni non l’avremmo vista mai più.

Nota: la versione di Laughter, tears and rage che trovate su Spotify è quella espansa del 2004: contiene praticamente tutto il materiale degli Act che la ZTT fece uscire, sparpagliandolo tra i formati più vari, tra il 1987 e il 1988. Per avere qualcosa di simile all’album originale dovreste cercarvi vinile, cassetta e cd dell’epoca o, più saggiamente, il “director’s cut”, uscito con il titolo di Love & hate: a compact introduction uscito nel 2015 su etichetta Salvo/Union Square/ZTT.

Act
Laughter, tears and rage
ZTT, 1988

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