03 maggio 2023 13:38

Oh, Dio disse ad Abramo ‘Sacrificami un figlio’
Abe disse ‘Amico, mi prendi in giro?’
Dio disse ‘No’, Abe disse ‘Cosa?’

Dio disse ‘Puoi fare come vuoi Abe ma
la prossima volta che mi vedi arrivare sarà meglio che scappi’
Allora Abe disse ‘Dove vuoi che avvenga questo omicidio?’
Dio disse ‘Sulla Highway 61’

Bob Dylan, Highway 61 revisited, 1965

“Voi potete andarvene tutti all’inferno, io andrò in Texas”, disse Davy Crockett quando partì per trovare la morte nell’assedio di Fort Alamo. Per provare a comprendere qualcosa di uno stato sconfinato e, per noi europei, straniante come il Texas forse basterebbe riflettere sul fatto che è uno stato che ha trasformato il luogo di un eccidio e di una tragica sconfitta (l’Alamo appunto) nel suo monumento nazionale più famoso.

Del Texas, in cui ho abitato per quattro mesi subito dopo l’esame di maturità, ricordo l’enormità di tutto, cose e persone; ricordo il caldo umido più insopportabile e il freddo che arriva a tradimento. Ma soprattutto ricordo il cielo: il cielo più grande che abbia mai visto. Un cielo che cambia forma, colore e umore molto più velocemente che da noi; un cielo vivo, con un suo carattere e una sua personalità. In Texas c’è più cielo che terra. Non è strano dunque che ci sia gente in Texas che guardando in alto senta le voci, si unisca a strane sette religiose o decida di salire sulla torre più alta del campus per fare gli angeli sterminatori sparando sugli studenti. Non sono mai stato in India ma posso dire che, nella mia personale esperienza, il Texas è il luogo più assurdamente mistico, e a suo modo spirituale, in cui abbia mai vissuto.

The Texas-Jerusalem crossroads dei Lift to Experience è un doppio album che non poteva essere stato scritto e suonato che da texani. È un concept album sull’Apocalisse che si ambienta proprio nel “Lone star state” che una volta purificato dal fuoco vedrà la seconda venuta di Cristo. Fino agli anni settanta in Texas c’erano ben due cittadine chiamate Jerusalem e ancora oggi c’è una Palestine, equidistante da Dallas e da Houston.

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I Lift to Experience si erano formati nel 1996 a Denton ed erano composti dal chitarrista e autore Josh T. Pearson, dal batterista jazz Andy “The Boy” Young e dal bassista Josh “The Bear” Browning. Non si sono mai ufficialmente sciolti ma The Texas-Jerusalem crossroads rimane il loro unico album. Il gruppo fu scoperto al festival South by Southwest nel 2000 da Simon Raymonde e Robin Guthrie dei Cocteau Twins, che subito lo scritturarono per la loro etichetta, la Bella Union.

Il loro primo e unico album era già praticamente pronto: si trattava solo di registrarlo. C’era un problema: era enorme. Enorme nelle ambizioni, nell’immaginario, nella poetica e soprattutto nel suono. Immaginate i Sonic Youth di Bad moon rising in rotta di collisone con gli Spacemen 3 e i My Bloody Valentine su una strada deserta del Texas. Un suono monolitico, in cui ogni minima intercapedine di silenzio viene riempita da un feedback onnipresente e da riverberi ed echi. Un muro del suono che ogni tanto si spacca per far passare una lama di luce, divina e minacciosa come il Dio del Vecchio Testamento. Il cielo dei Lift to Experience non è il cielo dell’immaginario religioso italiano, tutto nuvole paffute e cherubini in gloria disposti come nella coreografia di un balletto: è il terribile cielo del Texas, che da luminoso e pacifico improvvisamente diventa nero, solcato da fulmini e spazzato da tifoni che da un momento all’altro ti portano via la casa e la vita come la conoscevi. Gli angeli qui non danzano intorno a una Madonna estatica nel suo trionfo celeste (qui di madonne non se ne vedono proprio) ma sono araldi terribili, annunciatori di distruzione e di rinascita.

L’album, che almeno una volta nella vita andrebbe ascoltato per intero e senza interruzioni, come se fosse un grande film, si apre con una specie di prologo. In Just as was told la voce narrante di Josh T. Pearson declama: “Questa è la storia di tre ragazzi texani che si facevano i fatti loro quando gli è apparso davanti l’Angelo del signore”. L’Angelo gli annuncia l’apocalisse imminente e quando si dimostrano increduli lui gli risponde: “Ma allora non sapete proprio nulla? Gli Stati Uniti sono il centro di Gerusalemme”. È la partenza di un viaggio mistico, immaginifico e psichedelico all’interno di un Vecchio Testamento riletto in modo febbrile e allucinato che ricorda, spesso contemporaneamente, il Bob Dylan più biblico, il Leonard Cohen più millenarista e il Jeff Buckley più ispirato. Era dai tempi dei R.E.M. che il nome di una band non era così aderente al tipo di musica che faceva: i Lift to Experience ti sollevano, letteralmente, da terra per farti vivere un’esperienza spirituale fuori dal corpo.

All’uscita del disco, nel 2001, Pitchfork aveva criticato il tono predicatorio di certi pezzi, dicendo che Pearson sembrava sempre indeciso se cantare o declamare. Eppure è proprio questa indecisione, questo continuo oscillare tra apocalittici pezzi rock a squarci di luce celeste, a tenere viva la storia di “questo stupido cowboy di un gruppo rock texano che cerca di comprendere il grande piano del Signore”, come si definisce Pearson in Waiting to hit. L’unico singolo che fu tratto dall’album è These are the days, forse la canzone rock più tradizionale, che però finisce con il conto alla rovescia verso l’apocalisse: “Non vedo l’ora di sentire quel grandioso suono di trombe che si spargerà su tutta la terra…”.

È difficile isolare o descrivere dei singoli pezzi, visto che The Texas-Jerusalem crossroads va ascoltato e vissuto come un’opera unica in cui christian rock, country e shoegaze si mescolano come nessun pazzo, se non un gruppo di texani invasati con Gesù, avrebbe mai osato neanche immaginare. Riascoltato oggi The Texas-Jerusalem crossroads è tante cose: è un parente non troppo lontano di Neon Bible degli Arcade Fire ma soprattutto è uno sguardo su un futuro alternativo in cui Jeff Buckley, ancora vivo, sarebbe potuto arrivare fino in fondo alle sue ossessioni.

L’album, per mancanza di fondi, fu mixato da Robin Guthrie che, a detta della band, non fece un buon lavoro. Negli Stati Uniti non fu praticamente distribuito perché considerato troppo christian rock per il circuito indie. In più è uscito nel 2001, l’anno degli Strokes e dei White Stripes che facevano furore con le loro canzoni rock stringate, velocissime e spesso astutamente derivative. L’esatto contrario di un doppio, frastagliato, impegnativo concept album di christian rock psichedelico. In Europa, con il tempo, ha assunto l’aura di uno strano oggetto di culto noto a pochi iniziati che man mano sono diventati sempre più numerosi. Come tutti i messia, The Texas-Jeruslem crossroads ha avuto una seconda venuta sulla terra: nel 2017 è stato remixato e rimasterizzato in modo da far brillare le infinite trovate sonore di cui è ricco; quando lo ascoltiamo in cuffia è incredibile quante cose si riescano a sentire (e a vedere) dentro al rumore. Il mix che sentite sulle piattaforme di streaming è quello nuovo, più limpido e leggibile e forse meno misterioso e affascinante, di quello originale del 2001.

Lift to Experience
The Texas-Jerusalem crossroads
Bella Union, 2001

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