01 maggio 2018 16:28

Quelli che oggi sono ultrasessantenni si ricorderanno che c’è stata una stagione, più o meno coincidente con la loro giovinezza, in cui la parola “integrazione” non suonava sempre benissimo. Se si diceva, che so, che una cosa mal funzionante andava integrata con elementi che l’avrebbero fatta funzionare bene, nessuno batteva ciglio, quella era un’ottima integrazione. Ma se qualcuno buttava lì che tu – tu giovane dalla testa lucidamente ribelle che sapevi bene quanto era immondo il mondo – ti eri integrato, l’insulto era veramente sanguinoso. “Io? Io integrato, io rotella di un ingranaggio mortificante?”.

“Integrato” serviva a designare tutt’altro che un giovanotto assennato. “Integrato” era piuttosto uno che aveva perso la sua integrità, che scodinzolava servile, che somigliava allo zio Tom della Capanna dello zio Tom. Attenzione dunque alla parola integrazione, quando la si usa con i giovani d’ogni origine, d’ogni cultura.

Il giovane per sua natura vede l’integrazione come una resa al mondo com’è, la sente come la perdita precocissima della giovinezza. Ai suoi occhi l’unica integrazione non deprimente è quella che passa per il cambiamento. Per lui è umiliante piegarsi a un mondo adulto che nega ottusamente realtà intollerabili. Ci si integra nelle comunità disposte a cambiare, non in quelle che si ritengono perfette e vogliono essere accettate a scatola chiusa.

Questa rubrica è uscita il 27 aprile 2018 nel numero 1253 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati

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