Continuo a pensare a Polluting paradise, documentario di Fatih Akin presentato a Cannes. Un viaggio nella sua comunità d’origine devastata dai rifiuti.
Nel 2006 Akin, cineasta tedesco di origini turche, arrivato alla notorietà con film come La sposa turca, Soul kitchen e Ai confini del paradiso, riprende la scena finale di quest’ultimo lungometraggio di fiction nel villaggio natale dei suoi nonni, Çamburnu, situato nel nordest della Turchia. Un luogo dove la popolazione vive di pesca e “cultura del tè”, in sostanziale osmosi con la natura, e di cui il regista, che prima non lo conosceva, s’innamora subito. È un vero angolo di paradiso, in effetti.
Forse sarebbe meglio dire che la popolazione ci viveva, perché proprio in chiusura della la realizzazione di Ai confini del paradiso Fatin viene a sapere della potenziale catastrofe ecologica che incombe sul villaggio: un progetto di discarica, che per giunta non tiene in nessun conto gli standard internazionali di rispetto dell’ambiente. A nulla valgono le proteste degli abitanti, la discarica verrà costruita.
La barriera stagna non funzionerà, gli odori a dir poco maleodoranti invaderanno strade e case private, impregnandole, e quando il bacino, che malamente ritrattava le acque inquinate, esploderà a causa delle piogge i raccolti saranno sommersi di pesticidi, le falde freatiche saranno avvelenate inquinando i fiumi fino al mare, sempre più torbido. La microapocalisse tanto temuta dagli abitanti diventerà reale.
Akin ha realizzato questo documentario in maniera altalenante dal 2006, senza sapere dove la cosa lo avrebbe portato: una cosa potenzialmente pericolosa, anche da un punto di vista produttivo. Nel frattempo, a quanto dice lo stesso regista, si è però riuscito ad ottenere che la discarica venga chiusa nei prossimi due-tre anni, anche se nulla è ancora certo. Per esserlo serve anche un tam tam mediatico, a cui questo documentario vuole contribuire.
Tre gli obiettivi. Usare la tragedia che sta attraversando il villaggio per rovesciarne il potenziale disgregativo per la comunità, rinsaldandola e dandogli fiducia nella sua azione di resistenza e controproposta. Stimolare la discussione anche sfruttando le nuove tecnologie, da Facebook a Twitter, senza dimenticare ovviamente tv, stampa e cinema. Incoraggiare in tal modo il coraggio civico, e sottolineare quindi l’importanza dei processi democratici nella modernizzazione di un paese. E in questo ambito stimolare la richiesta di una sempre maggiore adesione a degli standard moderni di sicurezza ambientale e sanitaria.
Akin dà prova di realismo e naturalmente non s’illude con il suo documentario, pur augurandosi una distribuzione la più vasta possibile, di poter fare da panacea rispetto a quanto vuole denunciare. E ritiene che pensare di poter bloccare immediatamente la discarica per effetto del film sia naïf, per usare le sue parole. Ma pensa che il film possa inserirsi in un movimento generale, globale – di cui Occupy Wall street è forse il simbolo – di presa di coscienza da parte delle persone.
Contrariamente a quello che potrebbe fare un buon reportage giornalistico, la successione d’interviste non fornisce solo informazioni, ma crea alla lunga una galleria di personaggi, di tipologie. E si entra, e con delicatezza, nell’umano. Quello del documentario è un piccolo, anzi piccolissimo cast, in termini di notorietà dei nomi, ma è un cast. Ci si accorge che tenta di creare dei piccoli grandi eroi ma con stile e toni minimali, senza l’enfasi dell’epica, senza la volontà esplicita – appariscente – di creare un’epopea popolare, ma facendolo con discrezione, rispecchiando nella forma la sobrietà e la semplicità del popolo filmato: la gente di campagna della Turchia, facendoci così scoprire un paese più evoluto e dinamico rispetto allo stereotipo dominante che vuole Istanbul unico luogo “progredito” in tutto il paese.
In questa galleria, due persone-personaggi spiccano. Il sindaco di Çamburnu, che è riuscito a capire alla perfezione la questione nominandola per quel che è senza giri di parole: al contempo una catastrofe ecologica e una catastrofe sociale, cioè la disintegrazione di una comunità a causa della disintegrazione di un habitat. E dimostrando di aver il coraggio di andare contro al proprio partito, l’Akp, ha preso il toro per le corna.
Il secondo personaggio di spicco della galleria è ubiquo: diverse riprese, certe situazioni, sono state infatti realizzate dal fotografo del villaggio – nel corso di questi tanti anni – nei periodi in cui il regista si trovava in Germania, la nazione natia (Fatih Akin è nato nel 1973 ad Amburgo). Bünyamin Seyrekbasan, è colui che ha immortalato per decenni tutti gli avvenimenti del villaggio, come le feste, i matrimoni, eccetera. Il suo ruolo nella realizzazione del documentario era catturare gli avvenimenti improvvisi, o i cambiamenti troppo veloci, che altrimenti sarebbero andati perduti. È un po’ una regia a due, anche se è comunque tanto il materiale firmato da Akin.
È un va e vieni continuo tra gli abitanti, i campi, i responsabili delle aziende per la lavorazione delle piante da tè. Il ministro dell’ambiente di Ankara ha cacciato Akin dal suo ufficio, a quanto racconta il cineasta. È un viaggio nella comunità, attraverso il problema che li attanaglia: si vedono le loro facce, s’intuisce il loro modo di pensare, di sentire. Senza essere un capolavoro del documentario, Pollutting paradise esprime una notevole pregnanza della dimensione umana rispetto a quello che vuole comunicare in termini di dossier giornalistico. E ci offre sia un importante documento su una questione di fondo grave, il rapporto con l’ambiente e i diritti di una comunità a preservarlo/preservarsi, sia un esempio di come uniti ci si possa, forse, tirar fuori dal pantano collettivo. Forse. Ma da soli certamente no.
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