Una recensione da leggere o prima, o dopo aver visto il film e averne discusso con gli amici, o dopo averla parzialmente letta. Il film gli abitanti della capitale lo hanno potuto vedere ieri sera in anteprima. Oggi replica alle 20.15 alla sala Greenwich. E vi ricordo ancora il quasi capolavoro del cinese Jia Zhang-ke in A touch of sin di cui vi ricordo ancora [la recensione][1] e che verrà replicato domani sia per Cannes a Roma che a Milano (ma con orari diversi).

[Like father, like son][2] di Hirokasu Koreeda - distribuzione italiana: Bim

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Hirokasu Koreeda

Soshite Chichi Ni Naru (Like father, like son),

Concorso, Giappone 120’

Un interrogazione sulla paternità profonda, sovversiva, e in punta di piedi. Una giovane coppia giapponese scopre mediante l’esame del dna che l’adorato figlioletto di cinque anni non è il loro: a suo tempo, un infermiera fu colpevole dello scambio. Più di un critico ha visto la somiglianza con La vita è un lungo fiume tranquillo del francese Etienne Chatiliez, ma i nessi con la spiritosa commedia dell’ex pubblicitario si esauriscono negli elementi di partenza e nel mettere gomito a gomito due famiglie socialmente contrapposte: anche qui infatti una delle famiglie appartiene ad un ceto sociale medio-alto, l’altra, quella che ha allevato il figlio della coppia alto borghese, al ceto medio-basso. Spontaneità e comportamenti inamidati, al pari dei sentimenti. La società giapponese, troppo immersa in un groviglio di codici sociali, sembra dirci il cineasta, solo nei ceti bassi pare mantenere rapporti umani ancora improntati all’autenticità.

I Wish (2011)

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Still walking (2008)

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Ma al di là di come è formulata questa diarchia sociale, forse veritiera ma anche un po’ manichea, il film fa uso dei codici della commedia per parlare con finezza dell’intimo, dell’intimità più prossima per tutti noi, compreso l’artista concentrato sulla sua arte: la propria famiglia. Nel pressbook, il regista afferma che il suo animo era pervaso da una sorta di senso di colpa per il fatto di non provare lo stesso fortissimo istinto genitoriale della moglie verso il bambino, e di constatare che la sua “felicità fosse leggermente oscurata da un sentimento di esclusione”. E il conseguente affacciarsi di domande come: ” è il fatto di condividere il proprio sangue che fa di un uomo il padre”? O è il tempo che un padre e un figlio passano assieme?”.

Distance (2001)

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Così il personaggio dell’agiato architetto concentratissimo sul lavoro, che in teoria potrebbe essere un artista, pare più essere un carrierista d’impresa, mentre il padre del bambino “povero”, elettricista, sapiente bricoleur zuzzurellone, spesso inconcludente, possiede tutta l’imprevedibilità e l’anarchia dell’artista: forse in entrambi i personaggi dei padri c’è qualcosa del regista. La moglie dell’architetto, inversamente, si affranca gradualmente dal suo ruolo di donna assoggettata da rituali e convenzioni costrittive e finisce per essere meno distante dalla moglie della coppia proletaria. La distanza è il problema delle relazioni umane e intime in Giappone, e Distance – in concorso a Cannes nel 2001 – era il titolo di uno splendido e inquietante film di Koreeda sul fenomeno dilagante delle sette. Storia di un gruppo di adolescenti che cerca di scoprire una terribile verità, Koreeda si riallacciava al filone dei film sullo stato dell’adolescenza, storicamente una costante del cinema nipponico. Adolescenti e bambini, il loro abbandono (figurato e letterale), il senso della paternità, sono i leitmotiv ossessivamente ricorrenti della sua cinematografia che in maniera generica fa pensare al cinema di Ozu sul piano tematico ma ne è ben lontano sul piano stilistico.

Nobody knows (2004)

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Qui tutti sono bambini, anzi i bambini sono gli unici un po’ adulti, quantomeno il nato ricco geneticamente ma vissuto povero: disorientato dai giochi adulti, ben presto saprà sovvertire dall’interno, a suo vantaggio, la tirannia. Scena chiave: quando il bambino figlio dell’architetto chiede al padre “naturale” di riparargli il giocattolo come faceva il padre “impostore”, la sua insistenza dopo il rifiuto iniziale manda in crisi l’intera, artificiosa, architettura paterna. Il classico granello che manda in tilt il complesso meccanismo: il figlio (vero? finto?) “fa”, (ri)modella, il padre. Tutti sono inadeguati, incompiuti, l’architetto, sua moglie, il figlioletto adottato inconsapevolmente che non è certo il piccolo Mozart desiderato, e ovviamente i membri della famiglia di basso ceto per la loro collocazione sociale, ma che recuperano in buona parte sul piano della compiutezza umana. Ma che importa: Koreeda vede tutti con grande umanità e dà speranza a tutti senza perdere nulla in credibilità, in questo film ossessionato dalle questioni della riuscita, del sangue (o della genetica) in un paese ancora malato di manipolazioni storiche dal gusto etnico-nazionalistico, come la recente vicenda della diatriba con la Cina sulle isole Sensaku/Diaoyu dimostra.

Il finale, semplice, semplice, umanissimo, ma molto sovversivo, profilando una concezione della famiglia (quindi della società) opposta a quella attuale, ne è ulteriore e appassionante conferma.

After life (1998)

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