Heli, *di Amat Escalante, Messico/Germania/Paesi Bassi/Francia, 105’ *
Il film del messicano Amat Escalante è uno degli oggetti cinematografici più strani e complessi proiettati all’ultimo festival di Cannes da un punto di vista teorico, per la sua rappresentazione della violenza, ma è anche un ottimo film. Un film d’apertura di questo tipo nel Concorso è un vero pugno nello stomaco, un atto di provocazione anticonformista al politicamente corretto. Ci vuole molto per metabolizzarlo.
In Messico, Estela, una ragazzina non da molto entrata nella pubertà, s’innamora di un ragazzo poliziotto. Il giovane ruba ai narcotrafficanti della droga, sperando così di poter vivere tranquillo la sua storia d’amore. Il fratello di Estela però si mette in mezzo e quando i narcotrafficanti scoprono tutto sarà l’esplosione di una famiglia unita. La famiglia, presidio sociale della religione cattolica.
La rappresentazione di questo inferno, è quello di un ambiente dove i ragazzini dominano il paesaggio (letterale e figurato) ma dove i ragazzini sono schiacciati dalla violenza adulta alla quale sono presto aspirati. Malgrado il paese sia intriso di religione cristiana – a quanto dice Escalante è stato necessario sospendere le riprese per alcuni giorni a causa della visita del papa –, le ragazzine finiscono spesso incinta. E non di rado in galera poiché l’aborto è vietato e severamente punito.
Il film è girato nella zona dove il regista è cresciuto – Escalante è figlio di un americana e di un messicano oggi separati – ma la città di Guanajuato rimane fuori campo. Il deserto, anche qui letterale e figurato, gli ampi spazi aperti, sono una presenza costante. Al pari della violenza. Benché in quella zona da qualche tempo la General Motors abbia aperto una grande fabbrica, i problemi restano quelli di sempre. Anzi, mettendo anche la fabbrica fuori campo forse il regista vuole dirci qualcosa sulla violenza eventuale dei rapporti di lavoro in quel luogo. Heli è un film che metaforizza molto, pur con un registro visivo prossimo al documentario, grazie anche all’uso del digitale dovuto al capo operatore, quest’ultimo proveniente proprio dal documentario.
Escalante cita Hitckcock, il quale “teorizzava che non bisogna mostrare troppo” (come anche Jacques Tourneur aggiungiamo noi), e infatti abbiamo visto quanto fuori campo ci sia in Heli. Al tempo stesso desidera “una rappresentazione della violenza che lo renda triste” (come potete sentire nel video qui sotto). E mette la violenza in campo.
La rappresentazione della violenza è qui una questione fondante. La scena di tortura ai genitali del poliziotto è davvero molto dura da sopportare (successivamente il regista avrebbe scoperto che una situazione analoga è realmente avvenuta). Al contempo è una scena piena di significazione: bambini e ragazzini assistono alla tortura assieme agli adulti. In fondo è un film sull’infanzia e sull’adolescenza rubate, ma in un mondo quasi un po’ medioevale, lontano dalla Francia dei Quattrocento colpi di Truffaut. L’infanzia rubata come situazione congenita, strutturale.
Prima di questa scena terribile ci sono molte scene dove si respirano tensioni e situazioni tese o di allenamento ossessivo alla violenza, alla prova di forza, che nel film mangiano, divorano i pochi momenti delicati, di tenerezza, come potete vedere nel video qui sotto.
Heli (2013) - sequenza
Tutto questo crea uno spirito di condizionamento non lontanissimo dal lungo segmento di Full metal jacket di Stanley Kubrick fatto di addestramenti forsennati e alienanti, quasi al di là dell’umano. Eppure Escalante lavora molto su volti e occhi, dopo una lunghissima selezione degli attori. I ragazzi riescono comunque a farci tenerezza: si percepisce la loro vulnerabilità, la loro umanità sul punto di essere violentata, i loro desideri di amore, e quindi di speranza, sul punto di essere infranti.
Questa violenza, o questa sensazione di violenza incombente, ha qualcosa di paradossale, al limite del surreale, come vediamo nella scena nel video all’inizio, con il carro armato che appare solo in chiusura, mostro di ferro di una violenza insensata, che arriva in maniera insensata e se ne va nella stessa maniera. Preceduto (o preceduta) da un rumore sordo, di primo acchito quasi incomprensibile. Il regista dice che non ha mai assistito di persona ad una scena di violenza, come anche molti altri messicani, eppure nel suo paese l’ideologia della violenza la si respira quotidianamente. Un attesa continua, forse sfibrante. Come un incubo che partorisce un mostro di ferro e cingoli.
Il palestinese residente negli Usa Elia Suleiman, nell’ottimo Il tempo che ci rimane (presentato in Concorso a Cannes nel 2009), aveva impostato un intero film su un registro di questo genere. Anche lì, peraltro, c’era una scena surreale con un carro armato.
Il tempo che ci rimane (2009) di Elia Suleiman
Escalante vuole però esplorare, facendoci vedere con occhi nuovi la violenza elettronica della tv o, in versione ludica, del videogioco (che vediamo sul monitor durante la scena della tortura) a cui siamo assuefatti, e che non sappiamo più vedere nel suo orrore. A quanto dice il regista, in Messico le immagini di decapitazioni e altri obbrobri sono un orgia mediatica incessante volta ad assuefare lo spettatore a questo orrore in nome della libertà d’informazione. Assuefare è un aiuto a che tutto proceda come sempre.
Quella del film è una violenza concreta spesso esercitata da bambini e ragazzini che esiste nella realtà, e se quello che vediamo è mostruoso, quel che è bello è che la maggioranza dei personaggi hanno qualcosa dell’umano e non del mostruoso. Rispetto alla tv, ai giornali, ai media, lo sguardo è rovesciato. E’ come se ci dicesse: rendiamoci conto di quello che è davvero.
Los bastardos (2008)
Anche questo è un modo di ripristinare la purezza dello sguardo. E quindi di suscitare una presa di coscienza. Nel farlo dobbiamo rimemorarci la nostra identità umana, qui fatta equivalere a un identità dello sguardo, del vedere. Sta in questo il senso del prologo con l’immagine dell’uomo impiccato sul ponte – un leitmotiv dei media messicani a quanto sembra – e poi del lungo flashback in cui viene ricostruita tutta la vicenda fino all’immagine di partenza: ricostruire l’immagine, quindi ricostruire l’umano potremmo dire. Ma partendo dalla rappresentazione della violenza.
Siamo la generazione che non teme d’ingozzarsi con i Tarantino e i Winding Refn, intrisi di violenza estetizzata e dandystica, mentre spesso chi appartiene a generazioni più vecchie non riesce a guardarli. Inversamente fuggiamo da film che ci fanno vedere e vivere dal di dentro la situazione sociale e la dimensione psicologica de “l’altro”, in realtà elevandoci, facendoci maturare. Rimando su questo a quanto ho scritto nella parte finale del [precedente post][2] sul film messicano La Jaula de oro.
Amat Escalante non è certo il cineasta molto acerbo e bisognoso di definire uno stile personale, come ha scritto un critico di un importante quotidiano nazionale al momento del premio per “la messa in scena” datogli dalla giuria di Cannes. Ben al contrario. Anche perché Escalante con Heli è ormai al terzo lungometraggio, dopo Sangre del 2005 (imperniato tra l’altro sulla questione della penetrazione esponenziale dei simboli americani e dello spirito che propagano) e Los bastardos del 2008, film da tempo colti nella loro forza innovativa dalla critica più attenta.
Sangre (2005)
Personalmente, non so se mi venga in mente un altro film, o documentario, che mi abbia fatto sentire meglio, e quindi capire, la jaula – la gabbia – tutt’altro che d’oro, la costrizione sia fisica che psicologica nel quale un intero popolo è confinato. Lo fa grazie a un alternanza continua di situazioni estremamente piatte della vita quotidiana e improvvise irruzioni di una violenza inspiegabile, eruttazioni di un mostro nero nascosto, sempre in agguato. Una gabbia che forse il documentario, anche d’autore, non saprebbe costruire con altrettanta forza.
Ma della rappresentazione dell’indicibile ne riparleremo ancora nel prossimo post, l’ultimo sui film di Cannes, dedicato a quello che abbiamo definito il solo capolavoro di quest’anno presentato al festival. L’image manquante del cambogiano Rithy Pahn.
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