29 maggio 2015 11:09

Vedendo Louisiana - The other side, lo splendido documentario di Roberto Minervini presentato a Cannes a Un Certain Regard e arrivato nelle sale italiane, viene in mente Robert Kennedy, quando parlando dei neri americani li definì cittadini invisibili che diventavano improvvisamente visibili solo con le esplosioni violente, ma che queste andavano considerate come una richiesta di attenzione, un urlo per chiedere amore e compassione.

Ed è paradossale, perché Louisiana (recensito da Goffredo Fofi) ci fa vedere non solo un altro lato del sogno americano, ma anche l’altra parte dell’America povera odierna: quella bianca, povera, abbandonata a se stessa, ignorata da tutti, per molti detestabile anche ideologicamente. Sono ex pregiudicati, spesso ex militari, oggi paramilitari in preda alle droghe, alle anfetamine e all’alcol. Ci vorrebbe un Kennedy oggi, uno cioè che si butti anima e corpo verso le persone, facendo talvolta cose pericolose senza pensarci.

Francesco Boille e Giovanna Barreca intervistano Roberto Minervini


I Kennedy erano però figli di un orrore totale come la seconda guerra mondiale, della memoria dell’assurdità della prima e del conseguente esistenzialismo degli anni sessanta (Bob Kennedy citava Camus e disse che avrebbe voluto come epitaffio sulla tomba una sua celebre frase sui bambini sofferenti che possono essere aiutati solo da chi può, cioè da ognuno di noi), non figli del vuoto postmoderno di Obama, al meglio, o dei Clinton, al peggio. Può sembrare un dettaglio, ma i Kennedy “facevano politica” con i loro discorsi, come riconobbe un loro avversario nel Partito democratico, Dean Acheson (e che gli diede non pochi problemi durante la crisi dei missili a Cuba).

Dopo i Kennedy non è più stata elaborata una matrice innovativa nei discorsi rivolti al popolo americano e al resto del mondo dal ceto politico statunitense, solo riciclaggio, o basso (da Bush a Clinton) o alto (Obama), comunque sia riciclaggio, e oltretutto sempre privato di una tensione ideale costante verso la società.

I paramilitari che Minervini è andato a filmare nel nord della Louisiana, a West Monroe per l’esattezza, dove il 60 per cento della popolazione è disoccupata, sembrano alla ricerca confusa di un mantenimento dell’ideale americano di cui comunque si sentono figli – il 4 luglio, giorno dell’indipendenza, li commuove fino alle lacrime –, sono invisibili ai più, guardati male, in un paese ossessionato dallo status come valore assoluto, sia dai bianchi ricchi sia dai neri, si dichiarano non razzisti e amici di neri ma non esitano a chiamare “negro” l’inquilino della Casa Bianca, con la cui sagoma giocano al tiro a segno con le armi automatiche perché Obama non avrebbe fatto nulla per loro e per i poveri.

Louisiana è anche una splendida e molto vera storia d’amore tra un lui e una lei, Mark e Lisa, che reggono sulle loro spalle la prima parte, imperniata sulla filiazione

Sperano però nella vittoria alla Casa Bianca di Hillary Clinton, non di un repubblicano, perché l’America in quanto paese giovane non ha nulla da insegnare a paesi dalla cultura millenaria.

Sono esemplari perfetti dell’America bianca frustrata e rabbiosa da un lato, ed esattamente l’opposto, quasi degli anarchici progressisti, dall’altro. Impossibile catalogarli.

Nella giustissima battaglia dei progressisti americani e di una parte del Partito democratico sul controllo delle armi da fuoco, forse dovrebbe anche entrare la considerazione che per loro le armi sono una parte dell’identità, e che privati di queste armi si sentono del tutto vulnerabili. Psicologicamente ancor più che fisicamente. Privarli delle armi, dovrebbe esser compensato da una politica forte di reinserimento, magari, kennedianamente, fatta “con” loro e non solo “per” loro.

La fine del cinema di poesia

C’è un’immensa solitudine in queste persone: è figlia del peggior individualismo americano, quando quest’ultimo diventa cioè una patologia, raccontato con profondità da tanto cinema e letteratura americana di genere e non, ma anche dal fumetto con la rivisitazione dei supereroi in chiave psicotica a partire dagli anni ottanta.

È il paese che per lungo tempo ha interiorizzato come figura mitopoietica la figura del cavaliere solitario, magari in una valle solitaria (si veda il film di George Stevens del 1953, comunque piuttosto “legalitario” e umanista).

Il fatto è che quest’America abbandonata a se stessa, romanticamente violenta, sogna una poesia a cui ben pochi sono oggi sensibili negli Stati Uniti.

Quando David Lynch con Una storia vera (1999) realizzò un road-movie al rallentatore (la vicenda realmente accaduta del vecchio Alvin Straight che attraversò due stati a bordo di un tagliaerba per andare a trovare il fratello gravemente malato), facendoci così (ri)vedere con la violenza della lentezza paesaggi rurali che credevamo perduti per sempre dall’ottica della telecamera statunitense, quasi il ritorno dello sguardo del “nativo” americano in senso sia figurato sia letterale, in realtà rivelava indirettamente che uccidendo il cinema più imperialista è stato ucciso, nel cinema di Hollywood, il cinema di poesia, dei silenzi, della contemplazione, dei grandi spazi metafisici.

Assenza tanto più stridente nel contesto odierno dove Hollywood, assurdamente, ha quasi rinunciato ai film familiari a favore dei blockbuster, ovvero film che non cercano di coniugare arte nell’industria, seppur con tutte le formule elaborate nel tempo per accattivare lo spettatore, ma prodotti puramente ludici, film-giocattolo prefabbricati dal marketing seguendo schemi precisi e destinati a eterni adolescenti ossessivi ed egocentrici. È chiaro che nella realtà, come nel cinema, quest’America pare profondamente stordita e fuori posto, perfino fuori luogo. E allora si attaccano, disperatamente, ai loro luoghi. Con le armi.

Ma Louisiana è anche una splendida e molto vera storia d’amore tra un lui e una lei, Mark e Lisa, che reggono sulle loro spalle la prima parte, imperniata sulla filiazione: un mondo di figli/e che si sente perduto o abbandonato. Se non subito, presto: come lo stesso Mark, figlio di una vecchietta gentile e dall’aria un po’ fragile che ama con estrema tenerezza e per la quale teme di perdere la bussola quando lei non ci sarà più; figlio è il ragazzino a cui lo zio dice che sarà un grande soldato; figlia è Brooke, la bambina a cui Mark ripete due volte un “ce la farai”, lasciandola sola un istante dopo.

Il film, a sua volta, non è solo figlio ideale dei precedenti capitoli della cosiddetta trilogia texana di Minervini – The passage (2011), Low tide (2012), due lungometraggi di finzione girati con uno stile prossimo al documentario, e Stop the pounding heart (2013, vincitore del David di Donatello come miglior film documentario 2014) –, dove si parla sempre di filiazione abbandonata, ma anche perché Lisa è la sorella di Todd Trichell, il padre di Colby, vale a dire il ragazzo protagonista di Stop the pounding heart. E sempre attraverso membri di quella famiglia ha potuto arrivare ai paramilitari e del resto Linda Trichell già interprete in Stop the pounding heart figura nei credits del film come responsabile dell’organizzazione del film.

L’America di oggi non saprei dire se sia un bel posto dove vivere: se perdessi il mio lavoro sarei un uomo senza alcuna protezione. Bisogna proteggersi dall’America

Ma la vicenda dei Trichell (Todd è scappato dalla Louisiana, poverissimo, ed è riuscito a rifarsi una vita in Texas) pare un po’ figlia di quella dello stesso Minervini, nato in una famiglia di estrazione sociale abbastanza modesta ma appassionata d’arte, fondatrice di una compagnia teatrale, ma che non impedisce al futuro cineasta di fare una scelta difficile.

Mettersi a lavorare in un calzaturificio a 14 anni per sopraggiunte difficoltà economiche o mettersi rischiosamente a studiare?

Sceglierà la seconda strada con successo, e arriviamo così alla storia di oggi. In mezzo, però, ci sono così tanti lavori, incontri, studi (economia, storia e teoria del cinema, documentario d’autore e di reportage), singoli eventi felici come le nozze con un’americana che diverrà prima compagna e poi moglie, ed eventi infelici collettivi come l’11 settembre che gli farà prima perdere il lavoro, ma poi, grazie al risarcimento ottenuto in quanto “vittima indiretta dell’11 settembre”, gli consentirà di proseguire gli studi di cinema, e avvicinarsi a personalità come il regista John Waters, un simbolo del cinema pop indipendente, o il documentarista D.A. Pennebaker, o ancora un premio Pulitzer del fotogiornalismo come David Turnley.

Ma come ci ha detto il regista durante la round table a Cannes, poco prima dell’intervista video esclusiva che ci ha concesso, lui si sente più vicino, sotto molti aspetti, a un foto o videoreporter di guerra, perché “cerco di raccontare persone che nella loro quotidianità vivono tra la vita e la morte”.

Poco dopo si commuove in maniera poco abituale, improvvisamente c’è il vuoto, il silenzio, ma non realmente imbarazzante, si crea un’empatia “… loro sono parte del mio quotidiano, se loro si fidano di te è impossibile mollarli, ma a che prezzo?”. Per poi aggiungere: “L’America di oggi non saprei dire se sia un bel posto dove vivere: se perdessi il mio lavoro perderei anche la mia assicurazione sanitaria (Minervini vive della costruzione di edifici ecosostenibili, ndr), sarei un uomo senza alcuna protezione. Bisogna proteggersi dall’America”.

Quella di Minervini, come dei Trichell, è quindi la storia di una filiazione, una comunità, una famiglia cinematografica e reale assieme, nel tempo e nello spazio, poiché si sposta dal Texas alla Louisiana, e da film a film.

Si pensa inevitabilmente a Un mondo perfetto (1993), il film di Clint Eastwood con Kevin Costner, film di figli allo sbando perché senza padri, e dove un giovane padre che guida quella nazione sta per lasciarla orfana al pari dei due figli piccoli (il film è ambientato, come si ricorderà, alla vigilia del viaggio di JFK in Texas).

Mark, il protagonista di questo documentario i cui soggetti umani filmati assurgono a personaggi (ma anche a co-sceneggiatori della loro condizione umana), ha una presenza scenica unica: sensuale ed espressivo, attraverso il corpo mette a nudo la disperazione della sua “anima”. La scena di sesso, essenziale per capire questa disperazione – perché la frenesia dell’atto sessuale nell’annullamento dei sensi porta qui con sé il soffio della morte – ha tutta la verità e la semplicità del naturale, e bisogna essere obnubilati dalla pruderie per trovarci qualcosa di davvero scioccante (un grosso problema italiano, perché troppo spesso non si tenta di distinguere quasi mai il gratuito dal naturale, e la provocazione con intenti puramente narcisistici da quella che vuole anche smuovere la palude ipocrita benpensante).

Poco importa che ci possa anche essere un’intenzione esibizionista da parte di Mark, tra l’altro quella citata più sopra non è l’unica scena forte, se il tutto è inserito in una poetica che mette al centro l’umano. Anzi, per contrasto, quest’ultimo sarà ancor più evidente.

Se atmosfere, luoghi e tematiche (la droga, lo sbando, i marginali) a tratti fanno pensare al Gus Van Sant degli inizi, quello di Drugstore cowboy (1989, Matt Dillon il protagonista) e per l’ambientazione nell’America rurale conservatrice ma soprattutto per la dolcezza mischiata a disperazione a quello di My own private Idaho (1991, Belli e dannati l’orribile titolo italiano, Keanu Reeves e River Phoenix i protagonisti), lo stile di Minervini è tuttavia figlio dell’approccio che mescolando la finzione al documentario mette la cinepresa dietro ai personaggi seguendo il modello dei Dardenne.

Anche in questo caso i Dardenne degli inizi e forse non per nulla al montaggio figura Marie-Hélène Dozo che ha lavorato con i Dardenne per Rosetta (1999), Il figlio (2002), ma anche per il recente Due giorni, una notte (l’anno scorso in concorso proprio a Cannes) oltre a molte altre collaborazioni tra le quali sarebbe un peccato dimenticare quelle con l’eccellente regista del Ciad Mahamat-Saleh Haroun. Con Minervini però è tutto più dolce, soprattutto rispetto ai Dardenne degli inizi, e al tempo stesso più partecipato rispetto all’ultimo Dardenne, quello appunto di Due giorni, una notte.

Minervini si situa dunque in maniera diversa e complementare rispetto alla vasta tendenza del cinema d’autore contemporaneo più avanzato, che cerca la distanza rispetto ai soggetti umani filmati.

Il regista della provincia italiana emigrato negli Stati Uniti è invece prossimo a tutto ciò che filma, e questo emerge con chiarezza da quello che ha scelto di montare, selezionandolo con estrema attenzione dall’enorme quantità di materiale girato, e di mostrarci. Compresi i luoghi, le località rurali, i paesaggi. Molte sequenze del film sono dei climax di potenziali film non documentari, ogni luogo, o quasi, potrebbe essere una location per un film di finzione di qualità: si può pensare a Gus Van Sant, al David Lynch di Una storia vera, non ultimo al Walter Hill di I guerrieri della palude silenziosa (1981) quando i paramilitari erano la guardia nazionale e lo stato li pagava. Ma non è meta-cinema, piuttosto evocazioni di un mondo che non è più: un uomo a torso nudo ripreso di spalle si muove in barca negli acquitrini scostando gli intrecci degli alberi e subito si è nell’avventura di guerra, o meglio nell’avventura (dell’uomo bianco) che fu.

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