06 settembre 2016 11:44

Il festival di Venezia, dopo un inizio fiacco malgrado il fuoco d’artificio iniziale rappresentato dal musical La la land di Chazelle, ha preso quota con gli ultimi titoli presentati. Parleremo presto del notevole western olandese Brimstone di Martin Koolhoven e, soprattutto, di Frantz, che rivela un François Ozon in piena forma, come pure dell’exploit documentaristico, anche se imperfetto, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Spira mirabilis.

Intanto conviene soffermarsi su una divertente e raffinata commedia argentina, El ciudadano ilustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat, presentato tra i film in concorso. Un ritratto fine e arguto di un pezzo di paese e al tempo stesso di un paese intero, narrato sotto forma di commedia.

Uno scrittore argentino emigrato in Spagna è ormai alla fine di una perfetta carriera letteraria, dopo che ha vinto il premio Nobel. A un certo punto riceve l’invito dalla cittadina sperduta di cui è originario, Salas. Dopo aver avuto qualche dubbio, decide di accettare l’invito.

Fin dall’uscita dello scrittore dall’aeroporto, capiamo che l’assenza involontaria di quel minimo di pomposità e organizzazione che ci si potrebbe aspettare verso un personaggio del genere è la premessa per un calvario tragicomico. Ma al tempo stesso c’è ben poco della facilità di una certa commedia, anche televisiva, come si potrebbe invece pensare visto che gli autori vengono proprio da quel mondo, ma anche dalla videoarte e dal cinema sperimentale.

El ciudadano ilustre è un film immediato, dotato di una finezza e di un’arguzia di scrittura e regia che suscitano varie letture, alcune più evidenti e altre nascoste invece negli interstizi della narrazione. Più il nostro scrittore, semplice e autentico, compiaciuto e orgoglioso, umano e cinico, procede nel calendario degli eventi previsti dagli addetti del municipio, più emergono i fantasmi del proprio passato, che in qualche modo sono i fantasmi mai risolti di una certa Argentina.

Senza entrare nella questione terribile della dittatura, il film, sempre in equilibrio perfetto tra sguardo umano e cinico, esplora tipologie umane tanto veritiere quanto al limite della caricatura. Alcuni personaggi cercano faticosamente di sottrarsi alla chiusura della provincia, altri ne restano imprigionati e formano il perfetto cemento per il populismo antidemocratico che sfocia in un nazionalismo frustrato.

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L’Argentina ne esce come un paese che ha sofferto di obiettive discriminazioni al limite dell’umiliazione – la vergogna mai cancellata del mancato Nobel a Jorge Luis Borges – e che oggi è in cerca di compensazione, arrivata in parte con la nomina di un papa argentino, come suggerisce il film con sottigliezza.

Tutto è molto arretrato in questa piccola località dalle strade e dai marciapiedi malconci. E gradualmente appare in tutta la sua forza l’evidenza di due mondi lontani, se non alieni: quello a cui appartiene lo scrittore e quello a cui appartiene la piccola comunità. Gli abitanti più livorosi e alienati sono forse i più numerosi, ma il discorso non è valido per tutti.

Il film non è manicheo: dall’ex fidanzata di gioventù dello scrittore, ora insegnante, al discreto portiere d’albergo, aspirante scrittore, nascosti tra le pieghe della narrazione ci sono anche personaggi delicati e intelligenti. Alla fine queste due fazioni giungono sul punto limite dell’inconciliabilità, anche perché lo scrittore non accetta compromessi.

Raggiunta la soglia dell’odio puro in maniera quasi incomprensibile, si assiste a qualcosa che fa pensare ai conflitti interetnici. Il film legge in filigrana una tendenza pervasiva a tutte le nostre società moderne: non solo una certa difficoltà ad armonizzare etnie con culture profondamente diverse, ma anche parti di società che hanno assimilato cambiamenti culturali all’opposto di altre, rimaste ancorate a visioni culturali molto più tradizionali.

Il film illustra una spaccatura sociale e antropologica, che rappresenterà un problema politico gigantesco nei prossimi anni

È successo così negli Stati Uniti, dove i bianchi che votano per l’approccio inclusivo dei democratici e i bianchi che votano impauriti per i repubblicani sono ormai da tempo, al di là di Donald Trump, due mondi alieni tra loro. Lo ha capito Bernie Sanders, cercando di riportare molti bianchi poveri e molta classe media impoverita nell’ovile progressista.

El ciudadano ilustre, dietro la rappresentazione di un microcosmo, mette infatti il dito nella piaga di una grave spaccatura sociale e antropologica, una spaccatura che rappresenterà un problema politico gigantesco nei prossimi anni, rendendo necessarie politiche radicalmente nuove, immaginative quanto coraggiose per trovare soluzioni soddisfacenti.

Quanto ci mostrano i due registi in El ciudadano ilustre, valido in parte anche per l’Italia, è però innanzitutto valido per l’Argentina, un paese che, da un lato, sta al passo con il resto del mondo industrializzato – come è anche il caso del suo ottimo cinema d’autore – ma che, dall’altro, è regressivo, forse a tratti quasi cavernicolo, come il personaggio del giovane che non parla mai salvo per imitare il verso del maiale.

Il finale, geniale, ci rivela che abbiamo assistito a un racconto di finzione e dell’assurdo, un’opera metaforica raccontata nel nuovo libro di uno scrittore celebre. E, alla fine, non si sa cosa sia più finto: se lo scrittore inventato e raccontato nel romanzo e di converso nel film, oppure quello della cosiddetta realtà, sempre interpretato con grande naturalezza dallo stesso magnifico attore (Oscar Martínez), con i suoi terribili occhialetti bianchi e il suo altrettanto vuoto eloquio nella conferenza stampa televisiva.

In quello che è uno dei migliori ritratti di un intellettuale da molto tempo, la realtà supera la fantasia nell’orrore del falso dilagante, della postura dell’impostura, in un film che sembra un vero miracolo di equilibristi in movimento su corde sottilissime. E che non ci stupirebbe se finisse nei piani alti del palmarès.

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