25 ottobre 2016 18:00

Il senatore (e poeta) comunista Pablo Neruda, filmato di spalle, cammina veloce nei corridoi del parlamento. Poi, dopo un controcampo che lo riprende frontale, vediamo Neruda entrare in una sorta di salottino dove lo attendono i colleghi, che sembrano di tutt’altro colore politico a giudicare dalle loro battute. La macchina da presa continua a star dietro al suo personaggio, ma non appiccicata, non siamo nel cinema dei fratelli Dardenne e i movimenti di macchina sono aerei.

Però la luce del film è immersa in una nebbiolina o in una nuvoletta rosa appiccicosa: come se il rosa zuccheroso e lezioso delle pareti ricoprisse tutto, offuscando leggermente oggetti e persone. La carrellata, i movimenti di macchina e il rosa iniziali enunciano molto della forma del film che seguirà, forma in Larraín più che mai equivalente al contenuto.

Neruda è un film dalla grande bellezza compositiva, dai colori pastello, quasi sempre sussurrato e bisbigliato anche quando si è faccia a faccia con l’aguzzino, talvolta anche quando ci s’insulta, la fotografia successivamente declina il rosa in una variante dal biancore che fa pensare a un limbo, alternandolo spesso a un’oscurità catacombale, notturna, di ombre e vampiri, questi ultimi ovviamente metaforici, come del resto quelli evocati in una delle poesie lette nel film da Neruda.

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Larraín segue l’itinerario del poeta (Nobel per la letteratura nel 1971) nel 1948, più o meno dalla fine della sua carriera politica di parlamentare e dall’inizio di una clandestinità che lo porterà a Parigi, città con la quale, ricambiato, creerà un rapporto empatico e dove sarà sostenuto da varie personalità dell’arte, tra cui Pablo Picasso. Prima di questo il regista ci fa inoltrare in una storia ad anelli, un racconto avvolgente nel suo oblio di morte annunciata, dolce e insieme brutale. Una storia netta ma anche ambigua, di luci e ombre che Larraín rende entrambe bellissime, a volte in opposte sequenze, altre volte all’interno delle stesse sequenze, creando un prolungamento al fine e intenso Il club (2015). Così come rende splendida, poetica, a tratti quasi etica, l’ambiguità. Come a dire: c’è ambiguità e ambiguità.

Quando la dolce Delia, moglie di Neruda – interpretata dal volto pieno di umanità di Mercedes Morán – parlerà faccia a faccia con il nemico che il potere nero ha messo alle calcagna del poeta, ovvero il poliziotto interpretato dalla star del cinema messicano Gael García Bernal (in passato interprete del giovane Che Guevara in I diari della motocicletta di Walter Salles), la discussione tra loro due, immersi nella semioscurità di una casa e seduti a un tavolo con sopra teiera e tazzine, sarà franca, intima, quasi quieta. E nel volto del poliziotto si avrà la parvenza, l’ambiguità, di una dolcezza (auto)repressa.

Perché scegliere un volto dolce e fanciullesco come quello di García Bernal per una simile parte? Il poliziotto, figlio del popolo e insieme di nessuno, nato da una prostituta in uno squallido hotel, s’identifica con un grande poliziotto o presunto tale – il fondatore della polizia repressiva al soldo dei potenti e della borghesia dell’epoca – perché quest’ultimo frequentava i bordelli. S’identifica fino al punto da impossessarsi del cognome: un ideale dell’Io ibridato con l’autocompensazione di un enorme complesso d’inferiorità, un ibrido che finirà con il veicolare una freddezza di comportamento e un potenziale sdoppiamento della personalità.

Neruda, anche se non perfetto, è comunque meglio dei mostruosi borghesi, reazionari e fascisti

Tutto è all’insegna dell’ambiguità, anche se il film riesce nell’exploit di una rivendicazione etica netta: qual è il vero Neruda? Quello narcisistico e infantile che si trucca come Lawrence d’Arabia a una festa e che sembra giocherellare in situazioni di gravità estrema anche quando è inseguito dal suo invisibile poliziotto, sparendo e ricomparendo come Arsenio Lupin o come Fantomas (e così facendo Larraín crea nello spettatore una sensazione di spaesamento e straniamento), perché vorrebbe “sentire più vicino” il cane che lo insegue?

O ancora, quando non sembra preoccuparsi abbastanza delle conseguenze per gli altri e sembra quasi voler incitare l’ex presidente della repubblica dicendo che per fermare quelli come lui forse l’unico modo è di ucciderli tutti? Atteggiamento egocentrico ed egoista che suscita più tardi la reazione del suo devoto autista, indio figlio del popolo, che lascia l’incarico suggerendogli più umiltà. Oppure il vero Neruda è quello che abbraccia la ragazza povera regalandole la giacca? Quello che protegge, ricambiato, il travestito del postribolo da lui frequentato? O infine quello che, quasi pasolinianamente, capisce e perdona il suo inseguitore e potenziale aguzzino in quanto figlio del popolo che si è perso nel nero dei potenti, e gli riconosce quell’identità tanto desiderata invece dell’oblio?

Ma l’ambiguità esiste anche perché nella testa di Neruda, quasi a paradigma di tanta letteratura sudamericana, la vita per quanto dura forse è solo un sogno. Come nella sequenza sopra citata tra il poliziotto e Delia, dove lei gli rivela che lui è solo un personaggio creato dallo stesso poeta: per Neruda il poliziotto è davvero il “suo” inseguitore. La rivelazione fatta di converso anche allo spettatore rende improvvisamente credibile la dimensione irreale, assurda, insita nella realtà, soprattutto quella più tragica, e amplia le possibilità espressive di tante sequenze che sembrano uscite da un film noir e non solo da un film nero, come quella dove il poliziotto seduce la prima moglie di Neruda. Al suo posto sarebbe potuto esserci un antieroe chandleriano. Altre ancora sembrano uscite da un western tra le nevi del Montana. Non c’è un Neruda senza l’altro, l’osmosi è totale, così come non c’è inseguitore senza inseguito e viceversa.

E questo è valido per ogni cosa. Qual è la finzione (o la proiezione mentale) e qual è la realtà? Chi il vero gatto e chi il vero topo? I movimenti di macchina circolari e aerei equivalgono a un sogno o a una dolce morte? Le carrellate sono speculari al movimento della vita incessante o al (nostro) romanzo infinito? Qual è la differenza?

Ecco, in fondo, la vera domanda. L’ambivalenza siede in noi, ma poi l’etica chiarisce le gerarchie tra i doppi: e in questo film Neruda, anche se non perfetto, è comunque meglio dei mostruosi borghesi, reazionari e fascisti. Le antiche domande di fondo poste in maniera nuova grazie alla raffinata osmosi con la forma racchiudono in sé una possibile (parvenza) di risposta. E a nostro avviso fanno di questo Neruda, libero come la parola poetica, uno dei migliori film usciti nelle sale italiane nel 2016.

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