22 dicembre 2016 17:11

Uno specchio rovesciato di tanto cinema americano e, insieme, del caos, del tumulto, della violenza della società statunitense. Questo è Paterson, il nuovo film di Jim Jarmusch, regista emblema del cinema indipendente americano. Fedele a sé stesso – in fondo il film parla proprio di questo –, il cantore del minimalismo al cinema realizza uno dei suoi film in cui questa vena è più radicalizzata cercando però d’innovare, sorprendere e incantare. Ci riesce solo in parte, anche se non vengono mai meno un’indubbia profondità, i momenti di grazia, un vero piacere per la grande delicatezza di tocco e di tono. Naturalmente, bisogna amare il registro minimale del regista.

Paterson, un giovane autista di bus che vive nell’omonima cittadina del New Jersey, ama profondamente la poesia, al punto da scriverne di suo pugno. Tutto in lui è improntato alla più delicata quietudine come stile di vita e al suo continuo apprezzamento spirituale che riversa nella scrittura. Se non per alcune sequenze dove si coglie in una certa misura il traffico metropolitano – su un piano essenzialmente visivo più che sonoro – la cittadina sembra quasi abitata da poche persone, e ritroviamo la consumata capacità di Jarmusch d’isolare delle tipologie di personaggi in determinate situazioni che tornano con regolarità.

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A cominciare dai due protagonisti, Paterson e la sua bella quanto adorata compagna Laura (interpretata dall’attrice e cantautrice iraniana Golshifteh Farahani, già vista in diversi film sia commerciali sia d’autore). Laura e Paterson si svegliano ogni mattina abbracciati e noi assistiamo ogni mattina al loro risveglio, filmato dall’alto con inquadratura fissa, nei giorni sia lavorativi sia festivi. Sono inquadrature inserite a mo’ di siparietto in una cronaca minimale di vita quotidiana chiaramente vissuta nella pienezza della felicità. Felicità che non viene mai meno, malgrado si possa cogliere una sottile inquietudine che scorre sotto al pelo della quietudine, vale a dire l’inevitabile interrogazione interiore sul senso profondo dell’esistenza umana.

Opposti aneliti
Adam Driver, arrivato alla grande popolarità l’anno scorso con l’ennesimo capitolo della saga di Guerre Stellari, è il nuovo attore prescelto da Jarmusch per impersonare un ulteriore personaggio lunare, poiché la filmografia del regista di Daunbailò è anche una galleria di attori trasfigurati in poetiche icone di personaggi lunari. Dal John Lurie di Stranger than paradise (1984), al Benigni di Daunbailò (1986), al Johnny Depp di Dead man (1995), al Forest Whitaker di Ghost dog – Il codice del samurai (1999), al Bill Murray di Broken flowers (2005), ai vampiri di Solo gli amanti sopravvivono (2013), per citare i titoli più noti, sono tutti personaggi più o meno sempre fuori posto e fuori luogo per la loro instabilità di fondo e la conseguente (consapevole e inconsapevole) ricerca di unitarietà tra l’eterno disagio interiore del vivere nelle norme (pre)definite dai luoghi e i loro spazi (il più delle volte luoghi sociali predeterminati), e l’anelito a uno spostamento, interiore ma spesso anche fisico, da quegli stessi luoghi, in un viaggio ineluttabile verso la trascendenza e magari la morte. Oppure, all’opposto, di nuovo verso il disagio dell’immobilità, cioè tendendo a tornare per (ri)conquistare il limbo.

Jarmusch illustra pian piano il suo mondo fatto di piccole cose che sembrano niente e sono forse tutto

Rimanere sempre fedeli a sé stessi vuol dire essere vittime dell’immobilità, accettando l’infelicità delle aspirazioni mancate e quindi il sentimento di sentirsi fuori posto, oppure è il movimento fisico e interiore a essere portatore d’infelicità per il fatto che ti porta a essere e fare cose fuori luogo?

Paterson/Driver (il cognome dell’attore enuncia ben più della professione del suo personaggio) è quasi lo specchio della cittadina, in osmosi silenziosa e contemplativa con essa, con i suoi ambienti spaziali come con quelli temporali (cioè della sua storia e delle sue personalità illustri che permeano l’anima del film). Un tutt’uno che può sembrare l’accettazione della quietudine e della mediocrità (o presunta tale) della routine, lavorativa e non solo, come il modo giusto di far combaciare il fuori posto con il fuori luogo.

Ibridando come sempre elementi tra i più disparati, per esempio la poesia più timida e discreta ma profonda di Paterson con i motivi grafici dall’estetica decorativa di Laura, disegni sempre nella stessa logica eppure sempre mutevoli ma forse più superficiali, Jarmusch illustra pian piano il suo mondo fatto di piccole cose che sembrano niente e sono forse tutto.

Un mondo ideale
Metafore, tra le altre cose, in chiave minimale di quello che agita i grandi movimenti all’esterno di questa bolla protettiva che è la cittadina: “In Italia sotto i Borgia per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo Da Vinci e il rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù” è la celebre battuta di Orson Welles in Il terzo uomo (1949) di Carol Reed.

I grandi sommovimenti tecnologici del mondo esterno, che Jarmusch non ama molto – ripudia l’uso di cellulari e pc al pari di Paterson – sono più che mai sommovimenti minimi in Paterson, anche rispetto alla filmografia complessiva del regista. Il film riproduce al suo interno quelli ben più ampi del mondo esterno a questa bolla ma le sorprese (piccole), le tensioni e gli opposti si armonizzano oppure si rivelano dei bluff. Un mattino seduto davanti al deposito dei bus una bambina gli declama una poesia, una sera Paterson e Laura si offrono una pizza dopo la visione di un classico in bianco e nero al cinema d’essai (un passatempo culturale in molti paesi ormai fuori dal tempo), e così via.

Un mondo ideale costruito dal regista che corrisponde a un limbo ideale, le due cose confondendosi, generando quasi un’idea nuova di paradiso. Un limbo che racchiude al suo interno altri microlimbi ideali, come il bar di uomini di colore con sottofondo di musica jazz, dove Paterson/Driver, piccolo Virgilio del suo micromondo, ci guida pian piano. Qui, come altrove, anche quando si preannuncia una scena madre, tutto si risolve e si dissolve. L’iteratività quasi da strip a fumetti, si pensi a un capolavoro della grandezza del minimale dalle infinite varianti come i Peanuts di Schulz, l’essere Un ricomincio da capo – la commedia del 1993 di Harold Ramis con Bill Murray – rovesciato in positivo (dove cioè l’eterna giornata della marmotta si vuole densa di delicate, segrete e pervasive significazioni), la rappresentazione pudica del quotidiano di questa bella giovane coppia (niente scene di sesso anche solo tenero), l’accumularsi di microbolle protettive dove nella reciprocità ci si protegge come in un organismo unico, le atmosfere, calde e intense, soprattutto quelle nel bar dei neri (che ci ricordano quelle dei groom di colore dell’hotel di Mistery train – Martedì notte a Memphis, gioiello del 1989 supportato dalle note della splendida Blue moon di Elvis Presley), sono un insieme di elementi che producono un indubbio charme, una forma d’incanto e un moto di simpatia.

Pur gradevole e interessante questa rappresentazione di una mediocrità serena quanto segretamente intensa, ha un limite. L’adorata scatola di fiammiferi – gli Ohio Blue Tip – quindi il minimale aneddotico e fatuo, trova la sua connessione alta e forte nella poesia di Ron Padgett che li mette al centro (già lo aveva fatto Jacques Prévert). Tutte le poesie di Padgett nel film sono attribuite a Paterson e Jarmusch ha espressamente richiesto una grande cura per la traduzione italiana.

Ma nel film visivamente manca qualcosa che sia connesso con quella stessa alta poesia, qualcosa di estremamente forte, come per esempio la fotografia di Robby Müller in Dead man.

Uno dei più grandi fumetti degli ultimi decenni è L’Uomo che cammina di Jiro Taniguchi. Micronarrazioni di otto pagine dove l’autore giapponese narra di passeggiate nel suo micromondo, vale a dire il suo quartiere o le immediate vicinanze. La continua gioia e meraviglia estatica nella quotidianità mediocre, la profondità nella semplicità, non è fornita solo dal senso dei dettagli ma anche grazie a diverse immagini singole dalla potente forza compositiva suscitatrici di riflessione ed emozionata contemplazione nel lettore.

Qui è un elemento che affiora solo nel finale, quasi prossimo al cinema intriso di cultura francese del sudcoreano Hong Sang-soo, un finale che si vuole un vero sommovimento, gentile ma profondo, della routine e dunque una rivelazione. In parte lo è nel senso inteso dal regista, ma in parte rivela purtroppo un’insufficiente costruzione poetica visiva che esprima un’intensità maggiore in questo film tra i più atipici sulla condizione umana mai visti negli ultimi decenni. Anche per questo non ci sentiamo affatto di sconsigliarlo.

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