14 giugno 2022 15:31

“Com’era la morte?”. “Bella”, è la risposta di un sensitivo appena risvegliatosi. Memoria, il nuovo film del tailandese Apichatpong Weerasethakul qui in trasferta in Colombia e guidato con presenza intensa quanto delicata da una Tilda Swinton in stato di grazia, è uno dei film più misteriosi e al contempo (apparentemente) semplici, realistici ma immaginifici, sommessi e insieme vitali degli ultimi decenni. Ed è tutt’altro che un film funereo o inquietante, pur attraversando con grande tranquillità e naturalezza l’inquietudine: questo è solo uno degli exploit del film. La morte è un sogno, forse il sogno della vita stessa.

Già premio della Giuria a Cannes 2021, designato ora Film della Critica, esce in sala il film di un vero artista, fuori da ogni format sia commerciale sia autoriale che richiede allo spettatore appena un po’ di pazienza, ottenendo in cambio la chiave d’entrata in una sorta di fascinoso labirinto di sensazioni mai separabili da sorprendenti riflessioni. L’entrata in una dimensione “altra”, nascosta nelle pieghe del quotidiano più prosaico e della bellezza naturale più comune.

Molto visivo, relativamente fondato su pochi dialoghi, spesso sintetici se non rarefatti, Memoria, come abbiamo scritto nella nostra cronaca da Cannes 2021 – alla quale rimandiamo per non eccedere in ripetizioni –, ha in realtà come protagonista il suono. Sinonimo a priori di quanto di più astratto ci sia in un film, prende qui una presenza, una concretezza, una materialità, come mai prima d’ora.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Una donna si sveglia nel cuore della notte, nel suo silenzio, ed avverte un suono difficile da definire, ma netto al contempo. Un botto, ma con qualcosa di sordo, un tonfo molto forte, ma non un boato. La donna in questione continuerà a sentirlo lungo l’intero film al contrario delle altre persone incontrate, anche se la sua percezione della realtà per il resto resterà uguale a quella di tutti. O per meglio dire la percezione fenomenologica degli eventi quotidiani resterà la stessa dei più, ma non la sua percezione delle forme del reale e del tempo.

Come un piccolo fiume di montagna le cui acque scorrono tranquille, ma con intorno un paesaggio che rivela altre realtà, la donna in questione passeggia sul labile crinale tra razionalità e potenziale scivolamento nella malattia psichica, se non nella follia. La sua interiorità e il mondo – o i mondi – diverranno la medesima cosa e lei pazientemente, umilmente accetterà questa esplorazione, in parte voluta e in parte subita. Ma alla fin fine, come abbiamo detto, accettata come uno scorrere naturale delle cose semplicemente di “altra” natura. Natura intesa in senso sia figurato sia letterale.

La botanica inglese Jessica Holland sboccia qui, è il caso dirlo, come antropologa panteista e animista non solo dell’intero genere umano, ma dell’intera materia cosmica. Ma prima di raggiungere la fioritura, Jessica dovrà affrontare delle dure prove. In questa sorta di iniziazione a una nuova conoscenza della realtà circostante, e quindi a una nuova consapevolezza di sé, Jessica è come una sorta di Virgilio al femminile che attraversa le frontiere del tempo e della realtà spesso nella quotidianità più prosaica e minimale guidando verso una nuova forma di consapevolezza un Dante ultra-sdoppiato: la triplice “se stessa” – quella del presente, quella del passato più recente e quella di un passato più arcaico – è anche lo spettatore nella sua molteplicità.

Weerasethakul ha reso endemici nel suo cinema la malattia fisica e quella dello spirito come espressione di un solo fenomeno

Nel mentre, questo suono misterioso, questo botto che la fa sussultare, la perseguita dappertutto di giorno e di notte, nell’appartamento e all’esterno, per strada e a cena con la sorella e il marito di lei. Sdoppiamento multiplo della personalità, e con essa della narrazione, sono una costante strutturale nella filmografia del regista. Dal film d’esordio Mysterious object at noon (2000) fino a Zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti (Palma d’oro a Cannes nel 2010), questo figlio di medici itineranti nei villaggi tailandesi ha reso endemici nel suo cinema la malattia fisica e quella dello spirito come espressione di un solo fenomeno. Come pure lo sdoppiamento, la scissione quasi schizofrenica della narrazione lineare, facendo sua in modo molto personale la lezione del David Lynch di Strade perdute e Mulholland Drive, dove le due metà che costituivano la (dis)unità di queste due opere potevano essere lette come una realtà, per quanto straniata e già ambigua, che, sul piano della psiche dei rispettivi protagonisti/e, scivola in una progressiva schizofrenia.

Per Weerasethakul, influenzato come molto cinema d’autore d’Estremo Oriente dalla lezione del cinema di Antonioni – i temi dell’alienazione dell’uomo moderno e dell’incomunicabilità – la dialettica binaria lynchiana è anche uno strumento metaforico per trattare dell’alienazione e del devastante depauperamento culturale provocato da processi di modernizzazione omologanti, che suscitano uno spaesamento in grado di annullare qualsiasi punto di riferimento spaziale e temporale (il finale di Zio Boonmee è davvero significativo in questo senso). La fine della memoria. Ma al contempo queste metafore sono a loro volta molteplici e contengono una dimensione esplicitamente metafisica, se non spirituale.

Qui siamo in Colombia, nella capitale Bogotá, e il cineasta tailandese indaga questa realtà in maniera nuova, pur consentendogli il massimo di coerenza con la sua poetica e le tematiche predilette. La forma filmica non è più duale, ma una linearità approssimativa, come le piccole curve di un ruscello nella natura che costeggia tante piccole dualità, equivalenti a tante microfratture di una realtà o di più realtà che cominciano a parlarsi, a ricostituirsi o ricostruirsi. E così la sorella che vede ricoverata in ospedale e ossessionata dal sogno di un cane nero, quali corrispondenze trova nella o nelle realtà con il cane deambulante in un parco nella notte? E con la stessa sorella di Jessica che rivede al ristorante e quasi pare non ricordare più nulla? E ancora gli innumerevoli incontri con l’adorabile tecnico del suono del cinema – di una bellezza nobile da principe inca – che l’aiuta con successo a ricostruire il fantomatico, ma per lei ben concreto suono persecutorio, tecnico che scompare nel nulla e che nessuno sembra aver mai conosciuto? Altre vite o altre realtà? Forse sono la stessa cosa e l’incredibile e fantasmagorico finale ne sarà la chiosa.

Bogotá è una strana metropoli nel contesto geografico del Sudamerica e del Centroamerica: è una città tropicale, ma è al contempo anche immersa nel freddo delle nubi essendo situata sulla cordigliera delle Ande, e non lontana dal raggiungere i tremila metri di altitudine. Attraversando gli opposti e coabitando con essi: del resto Jessica è un studiosa inglese residente in Colombia a Medellín, ma in visita alla sorella a Bogotá.

Tra la luce e l’ombra, tra il sole e il temporale sempre in agguato, in questa umidità perenne ogni cosa è sotto il segno dell’ambiguità, della dualità e della reversibilità nel senso che l’umanità e la materia tutta sono una cosa sola, unitaria. La vita come la morte, il sogno come il ricordo. Seguendo un moto casuale, o predestinato, Jessica/Swinton, con il suo volto e sguardo alieno dalla grande umanità, visita un’esposizione di opere belle e strane, dove fotografia e pittura, l’astratto e il concreto si confondono.

Film panteista e animista, Memoria è chiaramente interclassista all’interno di tutte le temporalità e realtà possibili, come dimostra il sensitivo o sciamano che vive di quasi nulla incontrato da Jessica ai bordi di un ruscello quieto sul quale, ancora una volta, si sovrappone lungo i bordi quel terribile rumore, insieme ancestrale e proveniente dal (nostro) mondo inconscio. Ma scevro dell’ansia iniziale. “Tu stai leggendo la mia memoria”, dice lui a lei aggiungendo: “Io sono un hard disk e tu sei un’antenna”. Perché la prima e vera magia è l’empatia, altro tema fondante del film. Empatia permanente come la memoria.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it