13 agosto 2020 11:30

L’acqua zampilla festosa e sullo sfondo s’impone il profilo delle Prealpi venete. È l’immagine su cui punta la pubblicità di un’acqua minerale. In un’altra ci sono praterie alpine, vette innevate, cascine d’alpeggio, volti rugosi e sorridenti di contadini: promuove un prodotto con marchio Igp (indicazione geografica protetta). Le montagne sono un veicolo potente, per questo si vedono spesso nelle pubblicità. Comunicano ai consumatori genuinità, purezza, bontà assoluta, sostenibilità ambientale. Verità o inganno? Nel 2018 il ministero delle politiche agricole ha voluto mettere un freno all’uso frequente della montagna come strumento pubblicitario e ha proposto un’etichetta della quale possono fregiarsi solo i prodotti la cui trasformazione, stagionatura o maturazione avvenga in montagna e non altrove, come succede invece nei casi appena citati.

Il bollino non è bastato a evitare lo sfruttamento commerciale. È una specie di colonizzazione che viaggia parallela a un’idea della montagna stessa come oggetto sacrale di contemplazione e anche di rilassante compensazione dalle fatiche urbane. Una montagna da guardare, da frequentare occasionalmente, se dotata di tutti gli accessori della vita cittadina, ma non da abitare. E invece è alla montagna da abitare che bisogna rivolgere l’attenzione, a quella delle mucche e delle capre, alla montagna “di mezzo”, quella che oscilla tra i seicento e i duemila metri, che non sfoggia rocce da vertigini, ma modelli di esistenza e di sviluppo alternativi.

È questa in sintesi la riflessione fatta da Mauro Varotto in Montagne di mezzo. Una nuova geografia, che riordina e spinge in avanti gli studi e le pratiche da “nuovo montanaro” che l’autore, professore di geografia all’università di Padova, conduce da anni. Il libro di Varotto segue il filone politico-culturale, e ora editoriale, sull’Italia dell’osso (come la chiamava Manlio Rossi-Doria), l’Italia interna che da decenni si va spopolando. Ma lo arricchisce perché esplora uno spazio specifico, non genericamente interno e nient’affatto marginale, se solo ci si riferisce alla realtà territoriale. Anche se sono abitate dal 12 per cento degli italiani, le aree definite montane occupano un terzo della penisola (nove milioni e mezzo di ettari su trenta totali) e le montagne di mezzo (sette milioni di ettari) rappresentano più del settanta per cento di questo terzo. Varotto osserva le montagne di mezzo e racconta la natura del loro suolo, le costruzioni che ospitano, chi le abita, le forme d’impresa e di socialità, la loro versatilità. E poi chi ci resiste, chi ci ritorna e chi ci arriva.

Né nostalgici né rassegnati
Le montagne sono polisemiche (l’aggettivo è molto usato dall’autore) e per niente stereotipate. Non sono solo natura, tantomeno natura selvaggia. E sbaglia, sottolinea Varotto, chi, anche nel mondo ambientalista, si consola pensando a quanto velocemente procede la riforestazione che cancella coltivazioni e fasce di paesaggio agrario modellate dall’uomo. Le montagne non sono solo luoghi incontaminati per spiriti protoromantici, né sono solo al servizio del turista, dello scalatore o dello sciatore. Allo stesso modo, lo spopolamento non deve suscitare solo emozioni estatiche.

Il fenomeno dei “nuovi montanari” sta assumendo una qualità non più trascurabile, anche se statisticamente ancora debole. Da tempo l’associazione Dislivelli lo osserva con attenzione e ha notato che i luoghi più interessati sono le valli alpine e i rilievi appenninici. Mentre le persone più coinvolte sono giovani coppie e famiglie allargate, pensionati, intellettuali e creativi. La maggior parte di loro non ci va in vacanza. Semina, produce e raccoglie, alleva animali, avvia imprese, trasferisce competenze acquisite in città (con la quale continua a intessere stretti rapporti) e le mescola con i saperi che trova in montagna.

Né nostalgici né rassegnati, ma anzi innovativi e ottimisti, sperimentano forme di mutuo soccorso e cooperative, s’impegnano per la tutela dei paesaggi e degli equilibri idrologici, fanno manutenzione ed evitano i processi di inselvatichimento. E soprattutto non si riducono all’immagine eccentrica del buon selvaggio, così fortunata nei talk-show e anche sui giornali.

Un manifesto
La montagna non è periferica rispetto alla pianura e può diventare centrale nelle nostre vite, tanto più dopo la pandemia. Il libro di Varotto è stato scritto prima, ma aiuta a riflettere su questo dopo. Così come il manifesto Per una nuova centralità della montagna, nato nel novembre del 2019 da una riunione della Società dei territorialisti a Camaldoli. Coordinata dall’urbanista Alberto Magnaghi e dal geografo Giuseppe Dematteis, l’associazione nel suo documento ribalta l’idea di una montagna “come mondo statico, arretrato e improduttivo” e anzi lo elegge a “luogo adatto a coniugare tutela e produzione”. La crisi climatica offre paradossalmente eccellenti occasioni: “Permette d’introdurre nuove colture in quota, mentre le pianure, colpite da siccità, calure estive e inquinamento atmosferico, stanno facendo crescente ricorso alle risorse idriche, climatiche e forestali dei loro retroterra montani”.

Altro che montagna ai margini e in abbandono, dipendente dalla pianura e dai suoi abitanti che graziosamente la frequentano. In prospettiva, per sanare i guasti di politiche industriali che nel novecento hanno svuotato le alture per congestionare le vallate, ora “si affida alla montagna il compito di mostrare alla pianura le regole per guadagnarsi la propria salvaguardia”, scrive Antonella Tarpino in Il paesaggio fragile.

Varotto insiste sulla “mobilità verticale”, sul fatto che i nuovi pastori, i nuovi artigiani che scelgono la montagna non restano stanziali, ma assumono un’attitudine nomade sia verso la città sia verso le altitudini. Fedeli a un precetto secolare, quello per cui essere appartenenti alla montagna “non si basa sull’autoctonia, ma sulla presa in carico del suo addomesticamento”, su una quotidianità di vita, sul diventare attori di un paesaggio.

Cambio di paradigma
Ma si può fare affidamento solo sul pionierismo dei nuovi montanari? Queste donne e questi uomini mostrano che è possibile ridare una funzione a tanti spazi liberi (meglio definirli così, anziché “vuoti”), quale varietà d’iniziative si è in grado di mettere in moto. Eppure i nuovi montanari potrebbero moltiplicarsi “se i ragazzi potessero accedere facilmente alle scuole e le partorienti agli ospedali”. Lo sottolinea Giuseppe Dematteis che firma una delle parole chiave (“Montagna”) nel libro Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli. Il volume riprende in termini propositivi la raccolta di saggi Riabitare l’Italia, uscita nel 2018 a cura di Antonio De Rossi.

Abitare o tornare in montagna non deve essere un atto straordinario ed eroico. Ha bisogno di leggi che non impongano a chi vuole ristrutturare una malga, ricorda Dematteis, di sottostare a obblighi burocratici come se aprisse un’azienda in pianura. E non solo norme, necessitano anche politiche pubbliche che favoriscano un riequilibrio fra il troppo pieno e il troppo vuoto. Pochi sussidi, insiste il Manifesto di Camaldoli, e invece iniziative centrate sulla convenienza a restare o ad andare in montagna: infrastrutture e servizi essenziali, accesso al digitale, interventi per favorire l’economia circolare e le filiere produttive “basate sull’uso durevole del patrimonio, a cominciare dalla lavorazione del legno, dei latticini, delle conserve alimentari e delle altre materie prime di origine locale”.

Questo ripopolamento, aggiunge Varotto, non deve incidere solo sulle statistiche demografiche, ma deve ispirarsi a un cambio di paradigma: “Le forme di ‘ricontadinizzazione’ in atto si oppongono a usi della terra orientati solo al profitto, incasellati all’interno di un unico settore produttivo: si fanno carico di una cura della terra che si traduce nel recupero di paesaggi culturali, di una produzione di qualità, di un luogo di vita gradevole, di una riserva di biodiversità, di opportunità ricreative”.

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