05 giugno 2015 13:26

L’11 luglio di vent’anni fa, era il 1995, a Srebrenica, in Bosnia Erzegovina, si compiva uno degli ultimi atti del conflitto che mandò in frantumi la Jugoslavia. La guerra, tuttavia, distrusse pure l’illusione che, caduti il muro di Berlino e la cortina di ferro, un nuovo ordine mondiale fosse alle porte.

I fatti avvenuti nella cittadina bosniaca furono successivamente classificati dal Tribunale penale internazionale dell’Aja come genocidio, in base a quel corpus giuridico che si è sviluppato a partire dai processi di Norimberga contro i criminali nazisti.

Fu un atto di pulizia etnica sanguinoso, ma non l’unico nella guerra che dilaniò i Balcani; altri nomi, luoghi di combattimenti e stragi, oggi tornano faticosamente alla memoria, come quello della cittadina croata di Vukovar, oppure la regione a maggioranza serba della Krajina, scossa da esodi e massacri.

E ancora, segnano l’epoca l’assedio interminabile di Sarajevo e delle altre città bosniache, e la battaglia di Mostar, contesa da bosniaci e croati prima alleati poi nemici, così come le tante atrocità contro i civili commesse da bande paramilitari serbe e croate in special modo, ma anche bosniache, fino all’intervento conclusivo della Nato.

Ma Srebrenica è rimasta come un simbolo unico e tragico, con i suoi almeno ottomila morti trucidati nelle fosse comuni, con una sequela di efferatezze irripetibili condotte dalle milizie serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladic contro una popolazione musulmana.

Un svolta di carattere storico

Quell’episodio ha un valore in sé unico: la scelta di ritirarsi da parte dei caschi blu (in parte olandesi) posti a protezione della città (nei Paesi Bassi il dibattito sulle responsabilità dei militari e del governo è proseguito in questi vent’anni) e la decisione di non intervenire presa dal comando che guidava la missione delle Nazioni Unite, sono il simbolo concreto di come una popolazione di fede musulmana che viveva nel cuore d’Europa da tempi antichi fu lasciata alla mercé di milizie serbe di fede cristiano-ortodossa.

Nella ex Jugoslavia naturalmente furono operative anche milizie croate di tradizione cattolica, ideologicamente legate a un passato ferocemente reazionario. Ma di certo quel conflitto segnò, in Europa e in occidente, una svolta che ormai ha assunto caratteri storici.

In primo luogo si è assistito alla sostituzione dell’ideologia politica con la religione associata a un principio nazionalista; in questo senso la guerra nell’ex Jugoslavia è stata anche un conflitto identitario e nazionalista intercristiano tra croati e serbi, cattolici e ortodossi, oriente e occidente, Europa e Russia. Un tipo di confronto che, nella sua matrice ideologica, pur nelle mutate condizioni storiche, ricompare oggi in Ucraina dove i greco-cattolici indipendentisti si oppongono alla chiesa ortodossa filorussa e fedele al patriarcato di Mosca.

In secondo luogo (anche se alcuni fenomeni hanno radici anche più profonde: la guerra russa in Afghanistan, la rivoluzione khomeinista in Iran) l’aggressione della Bosnia segnò l’inizio del jihad del terzo millennio, ovvero l’accorrere di combattenti di fede islamica dal Medio Oriente e dalle ex repubbliche sovietiche in disfacimento (era la stagione della guerra in Cecenia), a difesa dei “fratelli” attaccati di volta in volta dalle croci ortodosse o da quelle cattoliche.

Ancora, va ricordato, sono gli anni – quelli intorno al 1991 – in cui l’Algeria vide prima l’affermarsi alle elezioni di un partito religioso tradizionalista, il Fronte islamico di salvezza, cui fece seguito un colpo di stato militare che sovvertì il nuovo assetto politico.

Da lì prese il via una sanguinosa guerra civile condotta dai fondamentalisti e dai vari gruppi jihadisti in primo luogo contro la popolazione. In Iraq, nel 1991, scoppia la guerra del Golfo e l’opinione pubblica europea, sorpresa, impara che i regimi nazionalisti e autoritari del Medio Oriente come quello di Saddam Hussein, nascondono una polveriera di gruppi etnico-religiosi: sunniti, sciiti, curdi cominciano a comporre un vocabolario politico inedito e improvvisamente imam e mullah irrompono sui nostri teleschermi.

È così che le varie correnti politiche dell’islamismo si radicalizzano, moderati e riformatori vengono emarginati o uccisi in tutto il Medio Oriente, mentre sul piano ideologico e simbolico l’attacco estremista alle torri gemelle di New York e la “crociata” dell’amministrazione di George W. Bush entrano nella storia.

I leader degli opposti schieramenti chiedono al mondo di decidere da che parte stare: contro il diavolo imperialista o a difesa della civiltà occidentale. Dietro le ideologie, le ragioni delle guerre sono quelle di sempre: il controllo delle risorse energetiche, dei territori, l’espansione dei mercati e delle industrie, la conservazione del potere; tuttavia il fondamentalismo religioso è la nuova arma di propaganda globale, e funziona.

La Santa sede ha cercato di contrapporre a una simile deriva ideologico-religiosa, l’idea alternativa del dialogo tra religioni e culture, del dio della pace al posto delle guerre sante. Si tratta del cosiddetto spirito di Assisi

Sabato 6 giugno papa Francesco andrà a Sarajevo per dare la sua testimonianza in favore della pace, di una convivenza mai più tornata ai livelli precedenti alla guerra, di princìpi di libertà e giustizia che riguardano tutti a prescindere dal gruppo etnico di appartenenza.

Gli accordi di Dayton del 1995, che posero fine alla guerra, forse andrebbero studiati oggi – in una prospettiva ormai ampia – come la certificazione politica e diplomatica che il principio di cittadinanza poteva essere sottomesso a quello di una presunta appartenenza etnica (il testo divide la Bosnia in base a sfere d’influenza etnico-religiosa divenute molto labili con il passare del tempo).

D’altro canto in questi vent’anni la Santa sede ha cercato di contrapporre a una simile deriva ideologico-religiosa l’idea alternativa del dialogo tra religioni e culture, del dio della pace al posto delle guerre sante.

Si tratta del cosiddetto spirito di Assisi, dal nome della cittadina umbra e francescana in cui si svolse l’incontro interreligioso promosso da Giovanni Paolo II. Il principio in sé, semplice ma discriminante, ripetuto più volte nel magistero degli ultimi tre pontefici – “non si uccide in nome di Dio”, non si commette violenza in suo nome – così come il rifiuto della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, sono stati alcuni passaggi chiave di questa impostazione.

Per altro di fronte all’enormità degli orrori commessi nell’ex Jugoslavia, la Santa sede coniò anche il principio del diritto all’ingerenza umanitaria quando una popolazione civile è attaccata e indifesa; in tal modo ha proposto un aggiornamento del diritto internazionale nel tentativo di evitare nuove Srebrenica.

Allo stesso tempo Wojtyla è stato certamente il leader mondiale che con maggior decisione si è opposto al conflitto iracheno, intravedendone le possibili nefaste conseguenze: in quei giorni il papa e il movimento per la pace marciarono uniti.

Tuttavia il nesso ideologico tra nazionalismo e religione non si è spezzato e conosce anzi nuove inquietanti versioni, come quella induista che vuole emarginare musulmani e cristiani.

Ma di certo l’attacco a cui sono state sottoposte le comunità cristiane in varie parti del mondo, a cominciare dal Medio Oriente, ha ridato forza a quei settori della curia vaticana e degli episcopati locali favorevoli a una deriva identitaria del cattolicesimo.

A questa spinta la Santa sede, e il suo segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, hanno risposto rilanciando quel principio di cittadinanza in base al quale si afferma l’uguaglianza tra le persone nel pieno rispetto della loro identità, compresa quella religiosa. Ed è lungo questo crinale, diritti e libertà contro fondamentalismo o identitarismo religioso-nazionalista, che la partita si giocherà nel prossimo futuro.

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