10 novembre 2016 11:16

Nella prefazione scritta per una delle sue opere più note, I sommersi e i salvati, Primo Levi annoverava “gli scomparsi in Argentina” – insieme ai gulag, “all’autogenocidio cambogiano”, alla guerra del Vietnam e alle bombe di Hiroshima e Nagasaki – tra gli orrori del secolo scorso in qualche modo paragonabili ai lager nazisti, che pure rimanevano un unicum nella storia contemporanea. Il giudizio espresso da Primo Levi aiuta a comprendere la portata della scelta compiuta dalla Santa Sede di aprire gli archivi vaticani relativi al periodo della dittatura militare argentina (1976-1983).

L’indicazione data dal papa in questo senso e resa nota nella primavera scorsa è rapidamente diventata realtà nell’ottobre di quest’anno: il lavoro di catalogazione in corso, a cui si faceva riferimento allora da parte vaticana, si è concluso e del resto andava avanti già da qualche anno, segno che papa Francesco considerava questo passaggio come un momento particolarmente significativo del suo pontificato.

A breve saranno dunque accessibili i materiali conservati negli archivi della conferenza episcopale argentina, della nunziatura di Buenos Aires e della segreteria di stato. Migliaia di documenti, insomma, anche perché in questi “contenitori” confluiva, almeno in parte, la documentazione degli stessi archivi diocesani argentini, con i mille rivoli di storie locali, di biografie smarrite, di dettagli specifici sui desaparecidos.

Nel succedersi degli eventi, ci sono tuttavia alcuni particolari che meritano di essere segnalati e che forse costituiranno un precedente importante. Il breve comunicato vaticano, con il quale si annunciava lo scorso 25 ottobre l’apertura degli archivi, stabilisce che “in base a un protocollo da stabilirsi prossimamente, potranno accedere alla consultazione dei relativi documenti le vittime e i familiari diretti dei desaparecidos e detenuti e, nei casi di religiosi o ecclesiastici, anche i loro superiori maggiori”. Seguiva una conclusione che suonava come una richiesta di moderazione rivolta a tutti: “Si desidera sottolineare che questo lavoro è stato svolto avendo a cuore il servizio alla verità, alla giustizia e alla pace, continuando il dialogo aperto alla cultura dell’incontro”.

Ricostruire la memoria amputata
Quindi i parenti (o i superiori religiosi) degli scomparsi avranno accesso prima degli studiosi, per questo il “protocollo” cui si fa riferimento nel comunicato è tanto importante e deve ancora essere messo a punto. In questo senso il papa ha inteso rispondere alle richieste provenienti dalle madri e dalle nonne (madres e abuelas, madri e nonne) di plaza de Mayo, che avevano invitato la Santa Sede, e Bergoglio in particolare, a rendere noto questo materiale. Nel corso dei decenni infatti, più volte era emerso, anche attraverso testimonianze dirette, che la chiesa e il Vaticano erano in possesso di una documentazione imponente relativa alla tragedia degli scomparsi, ai centri di detenzione in cui erano stati trattenuti, alla fine che avevano fatto.

Tutta l’operazione potrebbe contribuire a conoscere la sorte, almeno di una parte, di quei desaparecidos di cui non si è saputo più nulla o di cui molto spesso si sono avute solo notizie incomplete e frammentarie: si tratta di ricostruire una memoria amputata non di rinfocolare il sentimento di vendetta come ha ripetuto più volte anche Estela Carlotto, una delle leader delle nonne di plaza de Mayo. E se davvero dagli archivi vaticani dovesse uscire la verità sul destino di alcune vittime della dittatura, si tratterà di un evento clamoroso, che potrà cambiare profondamente il rapporto della chiesa con la storia dell’America Latina e forse modificare anche la ricerca storica novecentesca.

D’altro canto le “nonne” hanno reagito alla notizia con qualche prudenza – “l’aspettativa per questo tipo di annunci è relativa” – e hanno però espresso, allo stesso tempo, anche la speranza di trovare nelle carte vaticane notizie circa i bambini nati durante la prigionia. Il riferimento è a una delle pagine più tragiche della dittatura, quella dei figli dei desaparecidos adottati illegalmente dai militari (adozioni a cui in vari casi collaborarono organizzazioni cattoliche o singoli sacerdoti).

Dovrebbe venire alla luce pure la raccolta di informazioni messa a punto dalla chiesa sui singoli casi, oppure i tentativi di ottenerne comunicando con i militari

In realtà, il lavoro di classificazione e digitalizzazione del materiale conservato negli archivi è stato portato avanti in primo luogo dalla conferenza episcopale argentina, e poi anche dalle istituzioni vaticane su sollecitazione del papa, prima faticosamente, poi sempre più rapidamente. Ma cosa conterranno gli archivi? Da una parte riemergeranno le tante richieste pervenute alle varie istanze ecclesiastiche per conoscere la sorte di parenti e amici scomparsi, detenuti, torturati. Si tratta di richieste rivolte da singoli o da organizzazioni umanitarie; nel concreto alcune migliaia di casi di rapimento sono stati documentati dalla chiesa. Di seguito, tuttavia – e qui è l’aspetto più rilevante e il più delicato – dovrebbero venire alla luce pure la raccolta di informazioni messa a punto dalla chiesa sui singoli casi, oppure i tentativi di ottenerne comunicando con i militari.

L’interrogativo inevitabile
Da quanto è stato reso noto, spiega Massimo De Giuseppe, studioso di storia contemporanea presso la Libera università di lingue e comunicazione di Milano (Iulm), gli archivi vaticani “dovrebbero contenere tutto il materiale relativo al periodo 1976-1983, e se c’è tutto il materiale, vuol dire che sono documentate sia le relazioni tra la segreteria di stato e la nunziatura, sia i rapporti con i governi argentini e con i singoli ministeri; in alcuni casi potrebbero esserci anche altri documenti come quelli delle visite ad limina (le visite in Vaticano e dal papa dei vescovi di un determinato paese); si tratta, in questo caso, di carte non meramente diplomatiche ma che a volte danno delle notizie interessanti sul rapporto tra il vescovo e il suo clero, la sua diocesi, e dai quali possono emergere dati significativi”. Bisogna tuttavia tener conto del fatto che furono diversi gli organismi ecclesiali e i dicasteri d’Oltretevere in cui affluivano informazioni dall’Argentina.

Davvero quindi il Vaticano metterà a disposizione tutto il materiale del periodo? Questo l’interrogativo inevitabile che pesa sull’intera vicenda. In ogni caso, ha spiegato il segretario generale della conferenza episcopale argentina, monsignor Carlos Malfa, “l’apertura degli archivi relativi all’ultima dittatura militare ha richiesto un lavoro di digitalizzazione e classificazione molto grande. È stato necessario mettere in relazione i documenti e le lettere con le persone per fare luce sulla storia di tante persone” e anche per affrontare il nodo dei rapporti tra la chiesa e la recente storia argentina.

L’arcivescovo bergogliano di Buenos Aires, il cardinale Mario Poli, ha precisato a sua volta: “Negli archivi ci sono documenti che si trovavano nella nunziatura, e molti altri che arrivavano alla nunziatura e furono mandati direttamente alla segreteria di Stato”. Per questo tra le due sponde dell’Atlantico, Vaticano e chiesa argentina hanno lavorato all’unisono.

Gli archivi religiosi in passato sono stati sottovalutati per comprendere la storia del novecento

Massimo De Giuseppe rileva ancora, come “normalmente per accedere all’archivio vaticano, bisogna essere storici impegnati in una ricerca, avere una sorta di supporto accademico. Qui è stata scelta un’altra via: quella dei familiari delle vittime, e anche in questo caso sarà interessante capire quali saranno i criteri di accesso ai documenti; è una dinamica nuova”. Nel frattempo si guarda già alla documentazione ecclesiastica e vaticana relativa al Centramerica, ma anche all’Uruguay (dove il Vaticano ha annunciato un’operazione simile a quella argentina), al Paraguay e altrove. Il contributo che potrebbe venire dalle carte vaticane in questi e in molti altri casi potrebbe essere eccezionale. D’altro canto anche gli Stati Uniti hanno declassificato una parte – ben selezionata e limitata – del materiale inerente alla “guerra sporca” condotta dai militari in Argentina, e ora pure la Francia sembra intenzionata a seguire la stessa strada.

La frenata su Pio XII
Gli archivi religiosi per comprendere la storia del novecento in passato sono stati sottovalutati, rileva ancora De Giuseppe, si tratta di una documentazione non esplorata ancora a fondo dalla quale potrebbero arrivare grandi contributi alla conoscenza dei fatti.

E la chiesa? Delle sue responsabilità e dei suoi comportamenti omertosi in relazione alla dittatura si è già scritto e detto molto, si è svolto qualche processo per i casi più gravi. La storia in buona parte è nota come pure hanno ripetuto di recente le madri di plaza de Mayo. Tuttavia, “quando veramente si riuscirà ad avere accesso ai documenti si riuscirà a chiarire molte cose”, spiega lo studioso, perché siamo di fronte “a una storia complicata dove s’intrecciano guerra fredda, politiche regionali, episcopati nazionali non sempre allineati alle politiche della Santa Sede”. Potrebbe essere la fine di “schematizzazioni brutali”, il che comporterà anche un riconoscimento dei fatti, nel bene e nel male. D’altro canto è stato lo stesso presidente dei vescovi argentini, monsignor José Maria Arnacedo, arcivescovo di Santa Fe, presentando l’apertura degli archivi, a dire che “la riconciliazione non si oppone alla giustizia”.

Infine, la vicenda argentina richiama inevitabilmente un’altra storia di archivi vaticani, quella relativa al pontificato di Pio XII e alla seconda guerra mondiale. Una storia che pure si trascina da sempre tra polemiche, attese, contestazioni, critiche. Secondo la vox populi che circola tra gli storici, il lavoro di catalogazione delle carte conservate in Vaticano su quegli anni, è stato portato a termine. Da almeno due anni si parla di apertura imminente, ma evidentemente ancora qualcosa frena la svolta.

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