30 novembre 2018 10:08

Le leggi razziste e antisemite promulgate dal regime fascista nel 1938 furono accolte da un clima di “pavida indifferenza collettiva anche da gran parte dei cattolici”. Così si è espresso il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e presidente della Conferenza episcopale italiana(Cei) il 19 novembre scorso aprendo un convegno dal titolo significativo: “Chiesa, fascismo ed ebrei: la svolta del 1938” organizzato a Roma dalla Società Dante Alighieri. In realtà era la seconda volta, nel corso del 2018, che il cardinale usava l‘espressione “pavida indifferenza” per descrive la reazione degli italiani all’introduzione delle famigerate leggi razziali: già all’inizio dell’anno, ricordando l’80° anniversario “di una pagina buia del nostro paese”, aveva usato la stessa espressione.

Tuttavia, ora, Bassetti ha aggiunto una considerazione importante: “Come vescovo sento il dolore per il fatto che i cattolici italiani avrebbero potuto fare di più, quando gli ebrei vennero perseguitati con leggi razziste”. Da allora, ha concluso, le cose sono profondamente mutate, il rapporto del cristianesimo con l’ebraismo “è qualcosa di intrinseco, di cui negli anni trenta solo pochi ebbero coscienza, mentre sopravvivevano vecchi pregiudizi”. A porre su basi del tutto nuove le relazioni ebraico-cristiane – ha ricordato il cardinale – è stata la dichiarazione del concilio Vaticano II Nostra aetate (1965) con la quale veniva cancellata l’accusa di deicidio rivolta agli ebrei, si stabiliva un legame costitutivo tra le due grandi religioni, veniva condannata ogni forma di antisemitismo, si apriva il dialogo con le altre fedi compreso l’islam, si affermava il rifiuto di ogni discriminazione lesiva della dignità umana e “dei diritti che ne promanano”.

L’intervento del cardinale si muove dunque nel solco di una tradizione moderna ormai consolidata, e tuttavia chiarisce senza incertezza la responsabilità, di fronte alla shoah in Italia, di un cattolicesimo nostrano che, pur non essendo definibile in blocco antisemita – vi furono importanti eccezioni – era venato profondamente da un antigiudaismo di tipo religioso. Non razzista in senso moderno quindi, ma certamente capace di intrecciarsi, nei sentimenti diffusi, con l’antisemitismo di matrice nazista e poi fascista negli anni venti e trenta del novecento.

D’altro canto, l’antisemitismo, come un fiume carsico e assumendo forme nuove nel corso del tempo, riappare nei momenti di crisi sociale o di identità dell’Europa, magari assumendo le sembianze classiche di un complottismo internazionale, forza oscura in grado di manovrare di volta in volta il potere finanziario, partiti e movimenti politici o addirittura i flussi migratori (accusa rivolta al tycoon americano, ebreo di origine ungherese, George Soros). Per questo il dibattito interno al mondo cattolico e alla chiesa sulla questione è particolarmente interessante.

La Santa Sede non si oppose alle leggi razziali, prevalse la preoccupazione che una rottura con il fascismo facesse saltare i patti Lateranensi

“Antisemitismo e antigiudaismo sono fenomeni diversi ma con profonde connessioni e contaminazioni. Indubbiamente l’antigiudaismo delle chiese ha favorito il diffondersi dell’antisemitismo moderno. Questo è un dato storico”, spiega a Internazionale Valerio De Cesaris, che insegna storia contemporanea all’Università per stranieri di Perugia e ha studiato la questione in modo approfondito. “L’antigiudaismo – rileva De Cesaris – ha favorito nelle popolazioni europee il diffondersi dell’antisemitismo nazista e fascista, ma restano comunque due fenomeni diversi: per la chiesa si trattava di un’ostilità strettamente religiosa per cui, per esempio, nel momento in cui un ebreo si convertiva cessava completamente di essere discriminato”.

Ci sono casi di ebrei convertiti che diventano vescovi, cardinali, si trattava insomma di un’alterità che aveva caratteristiche soprattutto religiose e non di predestinazione etnica. “Credo che non si possa capire l’antigiudaismo se lo si considera solo come una gamba dell’antisemitismo”, aggiunge il docente. “Anzi il primo sopravvive al secondo: quando noi diciamo che la grande svolta è la Nostra aetate, stiamo parlando del 1965, cioè 25 anni dopo la liberazione di Auschwitz. In quel lasso di tempo l’antigiudaismo cristiano ancora esiste ed è vivo, perché nella percezione dei cristiani è un’altra cosa rispetto all’antisemitismo nazista, per questo la distinzione tra le due categorie è importante”.

È dunque una vicenda storica ancora viva e complessa, che ha però alcuni punti fermi come il fatto che la Santa Sede non si oppose alle leggi razziali, prevalse la preoccupazione che una rottura su questo punto con il fascismo facesse saltare i Patti lateranensi (con i quali, non si dimentichi, nasce una rinnovata autonomia finanziaria della Santa Sede, ricompensata dal regime fascista in consistenti termini economici).

L’impresa coloniale
D’altro canto, la ricerca storica ha pure indagato, in tempi più recenti, la relazione tra l’antisemitismo fascista e l’impresa coloniale in Etiopia (1935-1937); quest’ultima fu accolta con acclamazioni e fervore patriottico da gran parte dell’episcopato cattolico italiano, mentre altrove associazioni cattoliche e movimenti, singoli fedeli, “scrissero a Pio XI dai quattro continenti denunciando il pericolo di un nuovo conflitto mondiale”, spiega Lucia Ceci, storica, direttrice del Centro romano studi sull’ebraismo dell’università di Tor Vergata.

“Le nuove fonti dell’Archivio segreto vaticano hanno consentito di documentare l’opposizione personale di papa Pio XI alla guerra fascista (che ebbe conseguenze nefaste sulla popolazione etiopica e sulle missioni), i tentativi riservati del pontefice di fermare l’aggressione italiana, la presenza, in Vaticano, di esponenti come monsignor Domenico Tardini che criticava pesantemente il regime fascista e il suo leader e nelle sue note di lavoro per il papa denunciava l’impresa africana come un’aggressione codarda, giudicando l’atteggiamento del clero e dei vescovi italiani ‘tumultuoso, esaltato, guerrafondaio’”.

Pio XI rimane figura chiave sulla quale indagano ancora gli storici. Capo di una chiesa che aveva favorito l’ascesa del fascismo e lo aveva sostenuto lungamente, mentre lui stesso aveva aderito e propagato i contenuti tradizionali dell’antigiudaismo cristiano, a partire dal 1938 – fra impresa militare coloniale e leggi razziali – matura una svolta che, per varie circostanze, resterà solo nelle intenzioni. Eppure in quel frangente storico cominciano a prendere forma il rifiuto del razzismo e dell’antisemitismo come frutti avvelenati del nazionalismo, capace “di ridurre il cattolicesimo a religione di servizio” come ha sottolineato lo storico del cristianesimo Andrea Riccardi.

È in parte nota la vicenda dell’enciclica mai pubblicata Humani generi unitas, nella quale veniva condannato l’antisemitismo. L’enciclica venne “chiesta da Pio XI direttamente al gesuita John La Farge, esperto di segregazionismo e poi divenuto amico di Martin Luther King”, spiega ancora Riccardi. Papa Ratti morì il 10 febbraio 1939 e l’enciclica rimase in un cassetto, ma la sua pubblicazione era comunque stata rallentata per un misto di ragion di stato e di persistenti teorie antigiudaiche e antisemite che raggiungevano anche il Vaticano e molti dei suoi funzionari. “Al di là dei miti dell’‘enciclica scomparsa’ – osserva in merito Riccardi – resta il problema di perché il testo non sia stato pubblicato”.

Il “nodo” Pio XI riassume quindi un dualismo classico e attuale per la chiesa, quello fra la sua funzione e natura istituzionale, e la promozione di un dettato evangelico che convive a fatica con gli accorgimenti diplomatici e le relazioni fondate su rapporti di potere.

“Negli interventi che segnano gli ultimi mesi del suo pontificato Pio XI recupera alla chiesa la sua dimensione profetica”, continua Lucia Ceci. “Ma negli stessi mesi l’allungarsi sull’Europa delle ombre di una guerra imminente dimostra il fallimento di quel progetto di restaurazione cristiana della società enunciato da Ratti in apertura del suo pontificato”.

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