18 maggio 2020 11:34

Il diavolo si nasconde nel dettaglio e così, a conclusione di un anno scolastico drammatico, Lucia Azzolina, ministra dell’istruzione italiana, ha scelto e comunicato sabato 16 maggio che i voti in tutte le discipline andranno dati a ogni costo fin dalla prima elementare, nonostante i numerosissimi pronunciamenti contrari. È un’assurdità pretendere di dare voti a distanza in classi in cui oltre un quinto degli alunni non è stato raggiunto da alcuna proposta didattica e una gran parte ha solo svolto compiti assegnati su una piattaforma senza alcun contatto diretto con compagni e insegnanti. Proprio per questo, nelle ultime settimane, intorno al tema dei voti e della valutazione stanno crescendo preoccupazioni e agitazioni.

Dall’istituto comprensivo Simonetta Salacone di Roma alla Casa del sole di Milano un tam tam percorre la penisola coinvolgendo numerose scuole e migliaia di insegnanti. Si moltiplicano i docenti che si rifiutano di mettere voti ai bambini della primaria e ai ragazzi della secondaria di primo grado anche se, in assenza di collegi di docenti in presenza, è assai difficile arrivare a delibere impegnative, capaci di sancire una necessaria obiezione civile che in molti, in queste ore, stanno ragionando su come attuare.

Il ritorno al voto numerico, la più pigra e ingiusta delle valutazioni, è uno dei regali avvelenati che lasciò Mariastella Gelmini dopo il suo nefasto passaggio al ministero, insieme alla sottrazione di otto miliardi all’istruzione, che distinse l’Italia da tutti gli altri paesi d’Europa, dove si reagiva alla crisi economica investendo in ricerca e istruzione.

Disuguaglianze
Numerose associazioni professionali, tra cui il Movimento di cooperazione educativa (Mce) e il Centro di iniziativa democratica degli insegnanti (Cidi), da tempo conducono la campagna “voti a perdere”, che auspica una revisione radicale della valutazione. Ma la questione ha una valenza particolare oggi, perché il pretendere di fare parti eguali tra diseguali assume contorni abnormi nel tempo della non scuola.

A nome dell’Mce e del Cidi Anna D’Auria e Giuseppe Bagni, in una lettera aperta alla ministra Azzolina, denunciano che “con la didattica a distanza sono ancora più evidenti le criticità legate alla valutazione con voto in decimi, non solo per la mancanza di elementi per poter esprimere una valutazione attendibile, ma anche per il rischio di sottolineare e accentuare le difficoltà sociali o legate alla condizione che stanno vivendo numerosi studenti insieme alle loro famiglie”.

Com’è possibile, infatti, mettere sullo stesso piano ragazzi che hanno buone connessioni, un computer per sé e magari una stanza dove poter assistere con tranquillità a lezioni a distanza, con coloro che sono costretti ad arrangiarsi con connessioni instabili o dal telefono, disturbate magari da continue interferenze di parenti in spazi spesso angusti, per non parlare di almeno un quinto di studenti scomparsi da inizio marzo, che risultano invisibili a ogni radar educativo perché intrappolati in mura domestiche sconnesse.

Dovremo buttare a mare con coraggio voti e giudizi su singole discipline

In queste condizioni il compito di noi insegnanti è delicatissimo, perché, ben prima del ragionare su voti e giudizi, dovremmo provare ad assumerci la sfida del cercare di riscattare questo tempo così speciale, provando a captare con sensibilità da rabdomanti le fonti vitali alle quali bambini e ragazzi stanno attingendo in questi mesi.

È certo infatti che tutti, proprio tutti, stanno costruendo in questo tempo di reclusione domestica apprendimenti inediti, a partire da una frequentazione assidua della rete che, pur tra mille contraddizioni e accentuando differenze che discriminano, offre vaste praterie di apprendimenti informali ai più ricchi di stimoli, capaci di costruirsi bussole per i loro viaggi di conoscenza.

Una scuola intelligente dovrebbe provare ad accorgersi e valorizzare gli apprendimenti informali, anche se possono apparire lontani dai contenuti presenti nei testi scolastici, dando la possibilità ai ragazzi di attivare e scambiarsi sempre più le loro curiosità.

Un passaggio fondamentale
Se nella scuola non si tratta di apprendere le discipline, ma di provare a conoscere e comprendere il mondo e gli altri entrando e usando le diverse discipline, sarebbe interessante provare a capire, per esempio, quanto la matematica che studiamo a scuola ci stia aiutando a rendere comprensibili numeri e percentuali che accompagnano l’onnipresente cronaca della pandemia. E provare a intendere magari anche quanta e quale lingua si stia affinando nelle centinaia di migliaia di parole del continuo scambiarsi messaggi a distanza tra i ragazzi.

Trovare linguaggi e parole capaci di pensare ed esprimere ciò che si sta vivendo costituisce un passaggio fondamentale per fare tesoro di un’esperienza così inconsueta e aspra, a cui la scuola dovrebbe cercare di dare il suo contributo. Ma per far sì che emozioni e privazioni così profonde e contraddittorie non restino sepolte e arrivino a prendere forma e corpo, dovremmo offrire la possibilità di guardarle attraverso lo specchio dello scudo di Perseo, evocato da Italo Calvino nella sua lezione americana dedicata alla leggerezza. Per non restare paralizzati dallo sguardo pietrificante di Medusa, come dal virus che ha bloccato ogni cosa, dobbiamo imparare a guardare in modo indiretto e sghembo. È a questo che serve la cultura e dunque la scuola: a osservare ciò che accade fuori e dentro di noi rimbalzando su opere d’arte o di scienza capaci di rendere la scena intima e la scena planetaria meno oscura, meno opaca.

E allora, quando ci accingiamo a valutare ciò che è accaduto quest’anno a bambini e ragazzi, dovremo buttare a mare con coraggio voti e giudizi su singole discipline, non perché non siano importanti lingua e scienza, arte e storia, ma perché il cuore della restituzione non può che riguardare l’intera esperienza vissuta, per quel poco che siamo riusciti a intenderla.

La didattica a distanza ha messo in luce metodi diversi, esaltando pregi, difetti e caratteri di noi insegnanti

Nelle elementari e medie il grande sforzo dovrebbe essere allora, da parte nostra, proprio quello di dare forma e bellezza a ciò che di più significativo ciascun bambino o ragazzo è riuscito a elaborare in tempi e spazi radicalmente mutati, sovente non facili da vivere. Provare a fare da specchio alle strategie di sopravvivenza di cui ciascuno è stato capace e a una rinnovata resilienza, come s’usa dire oggi.

Il grande compito in queste ultime settimane di scuola dovrebbe consistere nel cercare di raccogliere frammenti di esperienze vissute, tracce di apprendimenti accidentali, spesso inconsapevoli, perché la miglior forma del valutare sta nel riuscire davvero a scovare qualità e a dargli valore. Piuttosto che tornare all’antica pagella piena di voti o alle moderne schede o griglie, dovremmo provare a raccogliere, insieme ai nostri alunni, una documentazione il più ricca possibile dei percorsi diversi intrapresi da ciascuno, capace di dare dignità e forma a ciò che forma magari non ha. Comporre una narrazione, singolare e corale, in cui ci si possa riconoscere e ritrovare nonostante e oltre le accresciute distanze.

Prima di voti o giudizi, ciò che dovremmo sforzarci di comporre dunque, alla fine di un anno bruscamente interrotto, dovrebbe avere l’ambizione alta di restituire a ciascuno qualcosa di ciò che ha scoperto in questo attraversamento accidentato in una terra di cui ancora non conosciamo i confini. Se anche il Consiglio superiore della pubblica istruzione era arrivato a proporre la scorsa settimana la temporanea abolizione dei voti, almeno nella scuola primaria, vuol dire che le circostanze sono davvero eccezionali e che fare come se nulla fosse è un errore fatale.

Dietro a ogni tipo di valutazione c’è un’idea di scuola
La didattica a distanza è stata la cartina di tornasole che ha messo in luce metodi diversi, esaltando pregi, difetti e caratteri di noi insegnanti. Così, se a un estremo troviamo un professore che, arrivando a proporre di bendare i suoi ragazzi delle medie interrogati in video per impedirgli di leggere di nascosto le risposte, esaspera in modo grottesco un’idea di valutazione intesa come controllo con punte di sadismo, non del tutto estranea alla scuola purtroppo, all’altro estremo ascoltiamo le parole di Roberta Passoni, una maestra elementare impegnata in Umbria in molteplici corsi con i referenti dell’inclusione, cioè con coloro che nelle scuole si stanno dando un gran da fare perché bambini e ragazzi con disabilità o bisogni educativi speciali non siano lasciati indietro.

“La valutazione è altra cosa dal controllo. Se nei compiti che gli allievi fanno a casa non posso sapere quanto siano stati aiutati da fratelli grandi o genitori, devo andare oltre la piatta sequenza spiegazione-esercizio-verifica e piuttosto considerare la valutazione nella sua funzione formativa, anche a distanza. E allora, se non posso osservare da vicino come in classe percorsi e ostacoli che bambine e bambini incontrano nei loro processi di apprendimento, devo dare loro la possibilità di raccontare come sono arrivati a quell’elaborato o a quel compito realizzato a casa. Quando a scuola facciamo delle esposizioni scientifiche o storiche, i bambini illustrano ai compagni di altre classi o ai genitori il percorso fatto ed è osservando la messa in forma di quelle conoscenze che io valuto le competenze raggiunte in quel lavoro collettivo e restituisco loro la bellezza di ciò che hanno ricostruito. A distanza è più difficile, certo, ma sarebbe assurdo per me chiedere al bambino di censurare l’aiuto ricevuto dalla mamma. Il problema sta nel dare dignità e riconoscere a ciascuno il percorso che ha compiuto a modo suo”.

Il Comitato scientifico nazionale (Csn), che per sei anni ha promosso e accompagnato la formazione intorno alle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuole dell’infanzia e del primo ciclo”, pur non essendo più in carica ha sentito l’esigenza di pronunciarsi con decisione, sostenendo che “in questa fase emergenziale è importante che la valutazione fornisca agli alunni informazioni sul loro processo di apprendimento, indichi gli aspetti da potenziare e le modalità per ottenere il miglioramento, motivi l’alunno ad apprendere attraverso l’apprezzamento dei progressi effettuati, anche se piccoli. Vanno incoraggiate l’autovalutazione e la condivisione dei criteri di valutazione. Il senso del ‘valutare’ interpella anche gli insegnanti e deve trasformarsi, a maggior ragione in questa situazione di forzata separazione, nel riconoscimento e nella restituzione agli allievi della qualità, del valore e del senso del lavoro svolto durante questo difficile percorso scolastico”.

Carlo Petracca, già membro del Csn ed esperto di valutazione, invita a elaborare giudizi narrativi e descrittivi, già previsti nella normativa attuale, superando la mera scala numerica che semplicemente constata ma non dice nulla sui processi di apprendimento, sul perché e sul come. E, citando l’intervento di un’insegnante in un webinar, ammette con lei amaramente che, “se ci costringete a mettere voti in queste condizioni, ci invitate a dire bugie”.

Contro la pedagogia bancaria
La vulgata sostiene che i genitori preferiscono i voti a giudizi più articolati e ciò ha indotto in molte occasioni, negli ultimi anni, tutte le forze politiche ad adagiarsi sulla più pigra delle valutazioni, che tra i tanti difetti ha anche quello di non stimolare il complesso e necessario lavoro di autovalutazione degli insegnanti che, se non si mettono in gioco, difficilmente possono riuscire ad analizzare e comprendere le dinamiche dei processi di apprendimento, segnate prepotentemente dalle forme e dalla qualità della relazione educativa.

Il problema è che dietro i voti, simbolo di una “pedagogia bancaria” per Paulo Freire, si cela un’idea di scuola dura a morire.

Sul fronte dei luoghi comuni che imperversano sulla scuola abbiamo assistito nel mese di maggio a una singolare convergenza tra l’ilare Ambra Angiolini e l’accigliato professor Ernesto Galli della Loggia, tonante fustigatore dei giovani d’oggi.

È bene ribadire con convinzione che promuovere è assai più difficile e faticoso che bocciare

Durante il concertone del 1° maggio, trasmesso a distanza da tv e social, a metà della serata Ambra Angiolini ha chiamato cinque studenti di terza media perché raccontassero la loro esperienza di didattica a distanza. Nel breve tempo loro concesso la presentatrice ha invitato ragazze e ragazzi a raccontare quali strategie mettevano in atto quando venivano interrogati attraverso lo schermo, cioè come posizionavano libri e foglietti da consultare di nascosto per sbirciare le risposte. Alla fine di questa divertita carrellata di furbizie, sorridendo in modo ammiccante, Ambra ha festosamente dichiarato che i cinque ragazzi per lei erano tutti promossi, perché si erano dimostrati abili nell’ingannare con astuzia professoresse e professori.

Non so se le battute le abbia improvvisate Angiolini al momento, o se siano state scritte da qualcuno per compiacere sindacati poco propensi a sponsorizzare la dubbia efficacia della didattica a distanza. Certo è che la finestra aperta sulla scuola in un’occasione di incontro giovanile di massa, con milioni di spettatori, lasciava un retrogusto piuttosto amaro a chi creda che la scuola non si riduca al prendersi in giro tra alunni e docenti, in nome del sacro voto da conquistare a ogni costo.

Deve avere pensato qualcosa di analogo degli studenti Ernesto Galli della Loggia, che nel suo consueto editoriale di fuoco sulla scuola pubblicato sul Corriere della Sera, ha inveito ancora una volta contro insegnanti e burocrati ministeriali che, rinunciando a bocciare, stanno facendo vivere gli studenti in una sorta di Bengodi, a causa di una presunta “bonarietà vacua e indulgente” dettata dal “demo-paternalismo attuale”. Non ho idea di quali studenti frequenti l’emerito professore, ma chiunque abbia un minimo di curiosità sincera delle loro condizioni, non può non avvertire il grado di sofferenza e difficoltà in cui si stanno trovando e quanto manchi loro la scuola, non solo come luogo di socialità.

Galli della Loggia è il tipico esempio di intellettuale che, avendo un martello in testa, vede tutto il mondo in forma di chiodi. Ha scritto un intero libro per dimostrare che la catastrofe del paese è dovuta all’assenza di bocciature nella scuola, arrivando alla paradossale e irritante affermazione secondo cui don Milani avrebbe ormai trionfato.

Il problema è che don Milani, come tutti coloro che hanno a cuore la funzione democratica e costituzionale della scuola, si batteva contro le bocciature di classe, presenti ancora oggi in tante scuole medie e diffusissime nelle superiori, in un paese in cui la dispersione scolastica è risalita al 14 per cento. E allora è bene ribadire con convinzione che promuovere è assai più difficile e faticoso che bocciare.

Promuovere motivazione allo studio e curiosità per la cultura, promuovere percorsi di apprendimento capaci di coinvolgere e includere tutti è infatti la sfida più difficile da sempre, aggravata oggi dal trovarci di fronte allo tsunami di una crisi economica che si annuncia devastante. E poiché il problema non sta tanto nel ripartire al più presto, ma nel coraggio di cambiare strada e, soprattutto, nella capacità di immaginare e costruire nuove strade, di qualità dell’istruzione e di diffusione di cultura nei territori più deprivati ne abbiamo un bisogno essenziale. È importante ripensare a ogni cosa di come funziona la scuola e l’occasione è propizia, se riusciamo ad allontanarci da tanti luoghi comuni, a partire dall’abbandono di un pigro affibbiare voti che non aiutano a crescere.

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