19 marzo 2020 12:00

All’inizio di marzo, quando su internet hanno cominciato a circolare le immagini satellitari che mostravano l’impressionante riduzione delle emissioni di biossido d’azoto provocata dagli effetti del nuovo coronavirus in Cina, molti hanno pensato che questa terribile crisi avrebbe potuto avere almeno un effetto positivo: fermare (o almeno rallentare notevolmente) il cambiamento climatico.

Le emissioni di gas serra sono direttamente legate alle attività produttive e ai trasporti, ed entrambe le cose sono state fortemente ridotte dalle limitazioni imposte ormai da tutte le principali economie del mondo per fermare la diffusione della pandemia. A febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019: duecento milioni di tonnellate in meno, l’equivalente delle emissioni prodotte in un anno dall’Egitto. Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo.

Il rallentamento dell’economia globale potrebbe avere effetti ancora più consistenti. Secondo le ultime previsioni dell’Ocse, nel peggiore degli scenari presi in esame la pandemia potrebbe ridurre la crescita del pil globale nel 2020 dal 3 per cento all’1,5 per cento. Su The Conversation, Glen Peters del Center for International Climate and Environment Research ha calcolato che questo potrebbe comportare una riduzione delle emissioni di anidride carbonica dell’1,2 per cento rispetto al 2019. Visto che dopo la pubblicazione delle stime dell’Ocse le prospettive economiche sono ulteriormente peggiorate, il calo delle emissioni potrebbe essere ancora più marcato.

Ma se a prima vista questa può sembrare una buona notizia per il clima, le cose appaiono molto diverse se si guarda oltre il breve periodo. Come nota lo stesso Peters, tutte le recenti crisi economiche (gli shock petroliferi degli anni settanta, il crollo del blocco sovietico, la crisi finanziaria asiatica degli anni novanta) sono state accompagnate da riduzioni delle emissioni – anzi, le crisi economiche sono state gli unici momenti nella storia recente dell’umanità in cui la crescita costante delle emissioni si è interrotta.

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Ogni volta, però, il calo è stato di breve durata, e la ripresa economica ha portato con sé un aumento delle emissioni. Nel 2009 la crisi finanziaria ha provocato una riduzione del pil globale dello 0,1 per cento e un calo delle emissioni di anidride carbonica dell’1,2 per cento. Anche in quel caso molti parlarono di una possibile svolta nella crisi climatica. Ma nel 2010 le misure di stimolo economico provocarono un aumento del 5,1 per cento nelle emissioni, molto più rapido che negli anni precedenti la crisi.

Il motivo è che l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni.

Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, ha avvertito che la crisi economica prodotta dalla pandemia potrebbe avere conseguenze disastrose per la transizione energetica globale. Il 70 per cento degli investimenti mondiali in energia pulita dipende dalle finanze pubbliche. Per questo, avverte Birol, è essenziale che le misure di stimolo diano la precedenza all’economia verde. Inoltre i governi potrebbero approfittare del crollo del prezzo del petrolio per ridurre i sussidi pubblici agli idrocarburi senza provocare grosse reazioni, e investire quelle risorse nella sanità.

Il ruolo dell’Europa
Recentemente la Commissione europea ha presentato il suo piano per un green deal europeo e la proposta di legge sul clima che prevede l’impegno ad azzerare le emissioni nette entro il 2050. Questi progetti non dovrebbero essere accantonati con il pretesto della crisi economica, come probabilmente chiederanno alcuni stati membri, ma essere messi al centro della politica di investimenti pubblici straordinari che ormai tutti gli economisti giudicano necessaria.

Inoltre l’Europa avrà la responsabilità di mantenere in piedi i negoziati internazionali sulla riduzione delle emissioni nonostante il caos. La pandemia ha già provocato la cancellazione di alcuni incontri preliminari alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima che dovrebbe svolgersi a Glasgow a novembre, e non è escluso che la conferenza stessa possa essere rinviata. In ogni caso, la lotta al cambiamento climatico scenderà parecchio nella percezione delle priorità globali, e servirà un impegno diplomatico ancora più deciso per evitare un fallimento.

Sotto questo aspetto, però, la pandemia potrebbe davvero offrire un’opportunità imprevista. Fino a poche settimane fa era opinione diffusa che solo un rallentamento dell’economia statunitense avrebbe potuto impedire la rielezione di Donald Trump alle presidenziali di novembre. Ora quel rallentamento è praticamente certo. Se questo dovesse contribuire a portare alla Casa Bianca un presidente deciso ad annullare l’uscita dagli accordi di Parigi e a riprendere il ruolo di primo piano avuto da Barack Obama nei negoziati internazionali, la crisi del nuovo coronavirus potrebbe avere almeno un effetto duraturo sull’emergenza climatica.

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