20 febbraio 2015 11:44

La notizia è questa: per l’edizione 2015 del World press photo, il premio di fotogiornalismo più prestigioso del mondo, la giuria ha scartato il venti per cento delle immagini inviate dai concorrenti. Tre volte tanto rispetto all’anno precedente. Il motivo è stato un uso eccessivo del fotoritocco.

Se inviate una foto o un reportage al World press photo, vi verrà chiesto di allegare anche i file raw originali, cioè la foto come si presenta al momento dello scatto, senza modifiche, in modo che i selezionatori possano vedere quanto ci avete lavorato su e valutare se avete superato dei limiti nella manipolazione. Le regole sono cambiate dal caso di Paul Hansen, vincitore assoluto nel 2013, che aveva avuto il merito di scatenare la prima vera discussione agguerrita sull’argomento.

Gaza burial, Striscia di Gaza, 20 novembre 2012. (Paul Hansen, Dagens Nyheter/Courtesy of World press photo)

Ma qual è il punto di non ritorno? Narciso Contreras, premio Pulitzer nel 2013, è stato licenziato dall’Ap perché con Photoshop ha rimosso un oggetto da una foto scattata in Siria. L’Ap ha regole molto ferree al riguardo e accettare un comportamento del genere avrebbe messo in discussione il proprio codice etico.

Il dibattito su quali siano oggi i confini invalicabili per un fotogiornalista è ancora aperto e offre nuove riflessioni sul ruolo della fotografia e su come deve raccontare la realtà. Lens, il blog di fotografia del New York Times, ha chiesto ai giurati del World press photo e a professionisti del settore qualche opinione sull’argomento.

Michelle McNally, presidente di giuria del premio, racconta che molte immagini in lizza per la vittoria non hanno passato il test nel confronto tra raw e immagine finale. Per esempio, manipolando eccessivamente le luci erano scomparsi interi elementi. In altri casi, era come guardare due immagini completamente diverse. Per McNally, anche se i fotografi non si sono resi conto di sbagliare hanno volontariamente tentato di imbrogliare.

Un fotografo, in veste anonima, ci offre un altro punto di vista. I concorsi, afferma, sono un male necessario. Necessario per essere visibili e vendere il proprio lavoro. Ma le regole non sono così chiare: è inaccettabile cancellare una lattina sullo sfondo e fare apparire la strada pulita, certo. Ma usare un flash, un sole “tascabile”, è consentito? Bisogna considerare le intenzioni dell’autore o analizzare solo le migliaia di informazioni contenute nel raw? La verità, secondo questo fotografo, è che molti non usano il ritocco per cambiare la realtà, quanto per rendere speciale un’immagine, riconoscibile in un mondo competitivo come quello della fotografia.

Secondo David Campbell, esperto di comunicazione e analisi visiva, la manipolazione non si esaurisce con l’uso di Photoshop. In ogni fase della realizzazione, dallo scatto alla distribuzione, ci sono le potenzialità per modificare una foto. La questione è su cosa sono d’accordo i mezzi d’informazione quando si parla di limiti. Nello studio curato da Campbell, The integrity of an image, sono ammessi gli aggiustamenti minori (come per esempio schermare e bruciare, sistemare la tonalità, convertire in bianco e nero). Non è possibile rimuovere elementi dall’immagine, ma solo dei difetti causati da anomalie del sensore della fotocamera, come la polvere. La giuria 2015 del World Press Photo non ha bocciato tante immagini solo perché erano troppo “fotoshoppate”. Manipolazione e ritocco non sono la stessa cosa. Tutte le foto sono lavorate ed elaborate in qualche modo. E la fotografia non dovrebbe avere limiti di creatività: anche un’immagine molto ritoccata può raccontarci a modo suo la realtà. Però chi si cimenta nel reportage ha il compito di fornire al lettore dei documenti, delle prove della realtà raccontata, per cui gli standard devono essere più rigidi per non perdere la credibilità della testimonianza.

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