28 dicembre 2016 15:26

David Bowie, Prince, George Michael, Carrie Fisher. I social network sono pieni di persone che piangono le morti di attori, musicisti e registi. Tanti si lamentano per il fatto che il 2016 è stato “l’anno più brutto di sempre”, mentre altri avvertono già che “il 2017 sarà peggio”.

La fascinazione nei confronti delle persone importanti, e il lutto manifestato per la loro scomparsa, non è una cosa nuova. Gli egiziani costruivano le piramidi, i greci e i romani organizzavano funerali sfarzosi per commemorare poeti ed eroi militari. In tempi più recenti, i funerali della principessa Diana a Londra o quelli di Mike Bongiorno a Milano si sono trasformati in momenti di spettacolo.

Oggi il luogo principale a ospitare il lutto collettivo è soprattutto il mondo dei social network, Facebook e Twitter in testa. Con una percentuale di isteria e volatilità maggiore che in passato. Nel frattempo, foto e meme su Keith Richards, chitarrista dei Rolling Stones, ancora vivo dopo una vita di eccessi nonostante non sia più un ragazzino, sono ovunque.

Quando muore una persona famosa, le homepage dei siti internet diventano dei moderni mausolei e i social network si trasformano in muri del pianto. In queste vacanze di Natale, la penuria di notizie di cronaca e politica è stata sostituita dalle notizie della morte di George Michael (che da vivo non era stato trattato proprio bene dai mezzi d’informazione) e Carrie Fisher.

Ad aprile, perfino un sito autorevole come quello della Bbc ha pubblicato un articolo intitolato “Perché sono morte così tante persone famose nel 2016”, quasi si trattasse di un fenomeno scientifico da analizzare con cura.

Ironia a parte, nell’articolo ci sono alcuni spunti interessanti: Nick Serpell, il giornalista che prepara gli obituaries, quelli che in Italia chiamiamo “coccodrilli”, ha fatto notare che in effetti una crescita c’è stata. Nel 2012 ne sono stati pubblicati solo quattro, mentre nel 2016 si è passati a 25. Questo dato, che risale ad aprile, oggi è sicuramente più alto, visto che nel frattempo, oltre a Michael e Fisher, è morto anche Leonard Cohen, giusto per fare un esempio.

La morte spesso cambia la percezione che abbiamo delle persone, spesso la eleva. Inoltre, per dirla in modo molto crudo, è un affare per le case discografiche. Spesso, dopo che un musicista muore, le vendite dei suoi album aumentano in modo esponenziale, così come lo streaming dei suoi brani su Spotify e YouTube. È successo a Prince, come a Bowie.

Nella macabra classifica delle celebrità ricche non più in vita, stilata periodicamente da Forbes, da quattro anni è in testa Michael Jackson, che nel 2016 ha guadagnato 825 milioni di dollari. Al secondo posto c’è il fumettista statunitense Charles Schulz, il padre dei Peanuts, al terzo il golfista Arnold Palmer.

Ci sono anche motivi storici e anagrafici per cui le morti delle persone famose sono in aumento. Rispetto a molti anni fa, ci sono più persone famose nel mondo. All’inizio del novecento, solo il cinema era in grado di creare delle star (più o meno) globali. Dall’arrivo della televisione, dei vinili e dei cd, il consumo di massa di prodotti culturali è esploso, e le celebrity o presunte tali si sono moltiplicate.

Diversi artisti scomparsi negli ultimi anni, come fa notare ancora la Bbc, fanno parte della generazione dei baby boomer nati tra il 1946 e il 1964, un periodo storico in cui c’è stato un forte incremento della popolazione. Prince e David Bowie facevano parte di questa generazione.

L’ossessione per il passato
Il grande critico musicale Symon Reynolds aveva già capito tutto qualche anno fa e l’aveva spiegato in un citatissimo libro del 2011, intitolato Retromania. Le parole dell’introduzione sono ancora un perfetto manifesto della contemporaneità:

Invece di spalancare le porte del futuro, i primi dieci anni del XXI secolo hanno finito per qualificarsi come il ‘Ri-decennio’: revival, ristampe, remake, ricostruzioni. Per non parlare del perenne sguardo retrospettivo: ogni annata ha portato un profluvio di anniversari con corollario di biografie, memorie, rockumentari, biopic e numeri commemorativi di riviste. Senza dimenticare i gruppi riformati, si trattasse di reunion tour per rimpinguare (o gonfiare ulteriormente) il conto in banca (Police, Led Zeppelin, Pixies… l’elenco è infinito) o del preludio a un ritorno in studio di registrazione per rilanciare la carriera (Stooges, Throbbing Gristle, Devo, Fleetwood Mac, My Bloody Valentine e così via)”.

Daniele Cassandro su Internazionale parlava giustamente di musealizzazione della musica pop. Insomma, il passato ci sta avvolgendo sempre di più, quasi fagocitando la contemporaneità, e il coccodrillo delle persone famose è il Caronte che ci spinge attraverso l’Ade.

Bolle e camere dell’eco
Non è detto che per tutti la morte di Carrie Fisher sia stata tragica come sembrava sul mio profilo Facebook ieri sera. Eppure ho avuto la percezione che fosse morto Marlon Brando, con tutto il rispetto per Fisher.

Il punto è che il newsfeed di Facebook, la pagina dove ogni utente vede gli aggiornamenti postati dai suoi amici e dalle pagine che segue, funziona in base a un algoritmo creato dalla stessa azienda, che tende a creare quelle che in gergo si chiamano camere dell’eco.

Ognuno di noi tende a interagire solo con i contenuti che rispondono ai propri gusti. Le nostre opinioni e preferenze si rafforzano, si amplificano, invece che essere messi in dubbio. Questo meccanismo, per fare un esempio leggermente fuori tema, è lo stesso che secondo alcuni analisti ha facilitato l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, favorendo la circolazione di notizie false e slogan del candidato repubblicano.

Siamo immersi in una bolla. Nella mia, evidentemente, la morte di Carrie Fisher era centrale, anche se non sono un suo fan e penso di aver visto al massimo quattro o cinque film in cui ha recitato. Non oso immaginare cosa potrebbe succedere al mio newsfeed il giorno in cui moriranno Bob Dylan o Bruce Springsteen. Non ci voglio neanche pensare.

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