23 febbraio 2021 10:13

Come molte persone delle mia generazione, durante l’adolescenza ho scoperto molta musica grazie alla tv. A metà anni novanta, quando facevo ancora le medie, ero a pranzo a casa dei miei nonni ed ero sintonizzato su The Box: Music television you control, un canale straniero che in quegli anni in Italia andava in onda sulle reti regionali. Era una specie di juke box, che trasmetteva a rotazione continua video musicali scelti dagli spettatori schiacciando i tasti del telefono di casa. Aveva una grafica veramente anni novanta e dentro ci finiva di tutto, dai 5ive ai Blur, dai Nirvana a Biagio Antonacci.

Quel pomeriggio hanno cominciato a passare un video strano con un uomo-cane che girava per le strade di New York. Incontrava le persone e ci parlava. Io non sapevo l’inglese, quindi non capivo cosa diceva. La musica era strana, girava attorno solo a un paio di riff, aveva un ritmo martellante di basso e batteria. Sembrava ripetitiva, ma ascoltandola meglio cambiava spesso. A quell’età le mie orecchie preadolescenziali erano abituate ad altro: agli Oasis, o i ai Verve. Eppure mi piaceva, anche se non capivo perché. Quello era il video diretto da Spike Jonze per il pezzo Da funk dei Daft Punk, il duo francese che il 21 febbraio ha annunciato il suo scioglimento con un video su YouTube. Faceva parte di un disco chiamato Homework (1997), dove finì un’altra canzone famosa con un video altrettanto famoso: Around the world.

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Ripensandoci a posteriori, e parlandone con persone più grandi, mi vengono in mente i racconti di chi, magari cresciuto con il rock degli anni sessanta e settanta, ascoltò per la prima volta i Kraftwerk: all’improvviso erano spuntati fuori dal nulla dei tedeschi che dicevano di essere dei robot. Sembravano degli alieni, eppure diventarono un classico della musica. Ecco, per me, e forse per tanti della mia età, i Daft Punk sono stati quello: l’epifania dell’elettronica. Veloce, casuale, indimenticabile. È come se di colpo qualcuno mi avesse sbattuto in faccia l’idea che la musica non era solo una cosa fatta con le chitarre elettriche, che le strofe non dovevano finire per forza nel ritornello passando per un bridge. Quel suono aveva una dinamica nuova.

I Daft Punk sono stati un mito sfuggente. Ho amici che andarono al loro concerto al festival Traffic di Torino nel 2007, quando erano atterrati nel nostro paese a bordo di una piramide. A fargli da spalla c’erano gli LCD Soundsystem. Era gratis. A distanza di anni provo ancora un’invidia terribile. Anche perché di tour il gruppo francese non ne ha più fatti e attorno a questa cosa è nata un’attesa isterica: sono diventati il pesce d’aprile più gettonato del mondo per gli appassionati di musica dal vivo.

Nel 2013 è uscito Random access memories, per i profani il disco di Get lucky. Con gli amici ne abbiamo parlato per mesi, sezionandolo brano per brano. Quell’album mi ha fatto riscoprire le origini della disco music, Nile Rodgers e Giorgio Moroder, cose che fino a quel momento avevo snobbato perché non mi sembravano abbastanza intellettuali e raffinate. Ovviamente non avevo capito niente, mi ci sono voluti i Daft Punk per capirlo. E la cosa sconvolgente di quel disco era che loro sembravano una band completamente diversa da quella degli anni precedenti: Random access memories era un disco suonato, con le chitarre, la batteria, il basso e l’orchestra. Poteva essere uscito nel 1979, ma potrebbe uscire oggi. Quando l’ho ascoltato nel 2013 ho pensato subito a Retromania, il saggio di Symon Reynolds sul rapporto tra musica e passato. Era un disco “antico”, ma anche moderno. Un archivio sonoro da ascoltare e navigare. Da quel momento si sono fermati del tutto. Quindi il loro scioglimento, in un certo senso, non è proprio un fulmine a ciel sereno.

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E non ho neanche citato il disco migliore, Discovery (2001), un viaggio interstellare a ritmo di house. Una delle cose che vanno dette dei Daft Punk è che non hanno mai sbagliato un album. Alcuni considerano Human after all (2005) un lavoro poco riuscito, non sono d’accordo: Technologic da sola basterebbe a fare le fortune di qualsiasi band.

È inutile e retorico, visto quello che stanno scrivendo tutti, ricordare quanto siano stati importanti per la musica dance, per il pop, per l’estetica e perfino per le strategie di marketing: il loro modo di giocare sull’anonimato, le interviste con il casco, i videoclip, la scelta di comunicare pochissimo sono stati il miglior modo per attirare l’attenzione. A proposito di performance leggendaria, l’apparizione ai Grammy del 2014 per la loro seconda (e ultima) esibizione in tv è sembrata una scena da film di fantascienza. Si sono presentati con una band di fenomeni guidata da Nile Rodgers, Pharrel Williams e Stevie Wonder. E sono comparsi sul palco per un paio di minuti, non di più, come due marziani. Nelle prime file perfino Paul McCartney, Ringo Starr e Beyoncé non riuscivano a stare fermi.

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In questi casi, più che di leggere articoli in giro, mi viene l’istinto di ascoltare, o meglio riascoltare. E soprattuto di risentire Alive 2006/2007, l’album dal vivo dove i Daft Punk trasformano i loro brani in un unico medley con classe e potenza. Quando fino a un paio di anni fa organizzavo delle feste con gli amici a Roma, ormai nell’età adulta, ma ancora un po’ attaccato alla gioventù, provavo a fare il dj con risultati maldestri. E tutte le volte finivo per mettere Around the world / harder, better, faster, stronger tratta da quel disco. Non mi veniva in mente un pezzo migliore da ballare.

Insomma, i Daft Punk si sono sciolti, ma nelle tante feste che ci saranno dopo la fine della pandemia, speriamo il più presto possibile, le loro canzoni continueranno a essere molto presenti nelle nostre playlist. In quelle di chi mixa bene, ma anche in quelle di chi mixa male. Perché è ciò che chiunque suoni musica dance sogna di raggiungere.

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