27 ottobre 2022 13:42

A metà degli anni novanta, durante i loro dj set, i Chemical Brothers mettevano sempre un brano house intitolato Lobotomie. “Durava dieci minuti e alla fine del pezzo la gente era esausta. A quel punto mettevamo Tomorrow never knows e succedeva qualcosa d’incredibile. Venivano a chiederci cos’era quella musica, volevano sapere se era un remix o una nuova uscita. Era così intensa e selvaggia”, ha raccontato il duo elettronico di Manchester alla rivista Mojo nel 2006.

Ma Tomorrow never knows non era affatto una canzone nuova, era un pezzo di Revolver, un disco del 1966 dei Beatles. Un album che ancora oggi, a 56 anni di distanza, dimostra tutta la sua sconvolgente modernità perché fu in grado di anticipare tante tendenze musicali, dall’elettronica al punk. Revolver, probabilmente il disco migliore della band di Liverpool, adesso è celebrato con un’edizione deluxe (in uscita il 28 ottobre) che contiene l’album remixato in una splendida versione stereo, oltre a una serie di registrazioni e demo finora mai pubblicate.

Riascoltando Revolver oggi, si capisce ancora di più quanto sia stato uno spartiacque nella carriera dei Beatles. Del resto quando John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr entrarono in studio il 6 aprile 1966 stavano già meditando una scelta storica: non sarebbero mai più andati in tour. La Beatlemania li aveva consumati. Non ne potevano più di fare concerti nei quali non riuscivano neanche a sentire cosa suonavano sul palco, coperti dalle urla dei fan in delirio. I Beatles del resto, dopo aver raggiunto il successo planetario, potevano ritenersi più che soddisfatti, perlomeno da un punto di vista materiale.

Stockhausen e lsd
La loro nuova sfida, a questo punto, era espandere i confini del pop ed esplorare le potenzialità dello studio di registrazione. Rispetto al passato, potevano passare nelle sale di registrazione della Emi a Abbey Road tutto il tempo che volevano, senza fretta. Questo percorso era già cominciato con il precedente album Rubber soul, che conteneva alcune sperimentazioni sonore interessanti, come l’uso del sitar indiano nel brano Norwegian wood. Ma stavolta la band voleva andare oltre.

Nel 1966 i Beatles non erano più la band di Love me do e A hard day’s night. Paul McCartney ascoltava musica diversa dal passato: oltre che alla classica, si era avvicinato all’avanguardia di John Cage e alle sperimentazioni elettroniche di Karlheinz Stockhausen, insieme al jazz di Ornette Coleman. George Harrison era sempre più affascinato dalle filosofie orientali e della musica indiana, una passione che aveva ereditato da David Crosby e Roger McGuinn dei Byrds (in questo senso è illuminante riascoltare il brano Eight miles high, una pietra miliare della psichedelia uscita qualche mese prima di Revolver).

E poi i Beatles avevano scoperto le droghe psichedeliche: dopo aver avuto un primo incontro con la cannabis grazie a Bob Dylan (come vuole la leggenda, in un hotel di New York nel 1964) i quattro musicisti di Liverpool – a smentire ancora una volta l’immagine di bravi ragazzi contrapposti ai “trasgressivi” Rolling Stones – ne erano diventati consumatori abituali. John Lennon, dopo aver assunto senza saperlo dell’lsd a una festa nel 1965, era diventato un appassionato di trip psichedelici, un amore condiviso in particolare con Harrison.

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Quattro giorni prima di entrare in studio per lavorare a Revolver (il cui titolo, scelto in extremis dal gruppo, si riferisce probabilmente alla rotazione del vinile), Lennon entrò nella libreria di una galleria d’arte di Londra e comprò una copia di The psychedelic experience, il libro di Timothy Leary, Richard Alpert e Ralph Metzner ispirato al Libro tibetano dei morti. The psychedelic experience teorizzava che la morte dell’ego, uno stato di coscienza che si poteva raggiungere con l’lsd, poteva essere in qualche modo paragonata all’esperienza della morte e della reincarnazione nella tradizione tibetana. Tornato a casa, Lennon cominciò a leggere il libro e a recitarne ad alta voce alcune parti. Fu una frase del libro a colpirlo particolarmente: “When in doubt, turn off your mind, relax and float downstream”, se sei in dubbio, spegni la mente, rilassati e fluttua a valle. Cominciò a scrivere una canzone che, come la musica indiana, girava su una sola nota, il do maggiore. Il brano s’intitolava Mark I e non somigliava a niente di quel che era stato fatto fino a quel momento dai Beatles.

Ci vogliono gli ingegneri
Qui, come spesso succede nella storia della musica, entrano in scena delle figure non appariscenti ma fondamentali: il produttore George Martin, “il quinto Beatle”, e il giovane ingegnere del suono Geoff Emerick. Martin ed Emerick, grazie alla loro abilità tecnica ed elasticità mentale, furono in grado di trasformare in realtà le intuizioni di Lennon, che entrò in studio dicendo che voleva che la sua voce somigliasse a quella del “dalai lama che canta dalla vetta di una montagna”.

Per registrare Mark I, poi diventata Tomorrow never knows, i Beatles fecero delle cose che non si erano mai viste dentro uno studio di registrazione, sperimentando nuovi modi per modificare la voce di Lennon e ricorrendo all’uso dei tape loops, una tecnica già sperimentata tra gli altri da Stockhausen per manipolare nastri magnetici: presero suoni catturati con un registratore portatile accelerando la velocità, rallentandola o sovrapponendoli in modo casuale. Con questa tecnica per esempio trasformarono una risata di Paul McCartney nel verso di un gabbiano. Questo approccio, unito ad altre piccole e grandi innovazioni tecniche, rese Revolver un disco rivoluzionario, capace perfino di superare le sperimentazioni messe in piedi dai Beach Boys per Pet sounds. Per capirlo meglio, basta ascoltare la differenza tra la prima versione del brano, contenuta nell’edizione deluxe di Revolver, e quella definitiva. Già con Tomorrow never knows, il primo brano registrato per l’album, i Beatles avevano cambiato la storia della musica, creando un pop al tempo stesso immediato e sperimentale.

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L’elenco dei motivi per i quali Revolver è il disco migliore dei Beatles potrebbe andare avanti a lungo: se meritano almeno una citazione il brano di apertura Taxman – con quelle chitarre che fanno pensare ai Television (roba di dieci anni dopo) ma perfino a Ok Computer dei Radiohead, e l’indianeggiante Love you to, entrambe scritte da George Harrison, oltre alla struggente For no one, una menzione d’onore va riservata a Eleanor Rigby, in assoluto uno dei pezzi migliori dei Beatles. Scritta principalmente da Paul McCartney, e accompagnata da un ottetto d’archi arrangiato da George Martin, Eleanor Rigby è il prototipo della canzone pop colta, con una melodia memorabile e un testo cupo che parla di solitudine, incrociando la storia di due persone: l’emarginata Eleanor Rigby e un prete, padre McKenzie, che s’incontrano metaforicamente al funerale della donna in un finale amarissimo.

Perfino tra le canzoni scartate da Revolver si nascondono dei tesori (presenti nell’edizione deluxe) come Rain, finita nel singolo Paperback writer, forse uno dei lati b più belli della storia della musica, e la prima bozza diYellow submarine, cantata da John Lennon e molto più cupa rispetto alla versione definitiva. Per rendere giustizia a Revolver ci vorrebbe un libro, e infatti c’è: s’intitola _Revolver: how the Beatles reimagined rock’__n’ roll_ ed è stato scritto dal musicologo Robert Rodriguez.

Revolver, come fa notare Rodriguez nella parte finale del volume, aprì la strada a Sgt. Pepper’s lonely hearts club band, pubblicato nel 1967, fotografia della controcultura dell’epoca e considerato dalla maggior parte degli appassionati il miglior disco dei Beatles. Sminuirlo sarebbe da pazzi, sicuramente, anche perché contiene brani epocali come A day in the life. Ma se Sgt. Pepper’s rappresentava in modo perfetto la sua epoca, Revolver guardava oltre. Parlava già agli anni ottanta e novanta, all’elettronica dei Chemical Brothers (che hanno omaggiato l’album nel loro singolo Setting sun) e al rock di Stone Roses e Oasis (riascoltare la bella cover di Tomorrow never knows fatta da Noel Gallagher e Johnny Marr è illuminante in questo senso), ma anche al nostro presente. E, non è da escluderlo, al nostro futuro.

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