Un po’ come per i dischi stranieri, anche per la musica italiana il 2025 è stato un buon anno. Dal punto di vista dei numeri, è stato dominato come sempre da Sanremo, che ormai sembra aver perfino sostituito i tormentoni estivi.

La canzone più ascoltata su Spotify è stata Balorda nostalgia di Olly, il vincitore del festival, arrivato al primo posto anche nella classifica degli album con Tutta vita (sempre).

Ma la musica non è solo una questione di numeri. Ci sono dischi italiani che magari non avranno raccolto le stesse riproduzioni di Olly, artisti che hanno venduto meno biglietti di Vasco Rossi e Cesare Cremonini, ma che sono riusciti comunque a lasciare un segno nella scena culturale del paese.

10) Volevo essere un duro, Lucio Corsi

A proposito di Sanremo, con la tipica isteria che accompagna l’Italia musicale nella settimana del festival, a febbraio Lucio Corsi è stato trattato come se fosse la reincarnazione vivente di David Bowie. Nulla di più falso, come lui stesso ammetterebbe candidamente. Lucio Corsi è “semplicemente” un bravo cantautore, che sa reinterpretare con gusto un bagaglio di riferimenti retromaniaci che vanno da Ivan Graziani a Marc Bolan ed è arrivato all’Ariston con un repertorio e una carriera solida alle spalle, il che gli ha permesso di uscirne più che bene addirittura da secondo classificato. Comunque non è scontato saper scrivere brani pop di ottima fattura come Volevo essere un duro e divertissement dylaneschi come Francis Delacroix. Perfino Sanremo, a volte, porta buoni frutti.

9) Nessuna, Altea

È solo un ep, ma Altea è troppo brava per ignorarlo. Da anni è una delle voci più toccanti del nuovo cantautorato italiano. Con Nessuna, nonostante la giovane età, sembra già arrivata a una sorta di maturità, raggiunta soprattutto grazie all’esperienza con i Thru Collected. Pugliese trapiantata a Napoli, Altea mescola riferimenti italiani e stranieri (James Blake, Radiohead), e rincorre metriche non banali per il pop, come succede nei brani Alto il mento e Nuvole. Se continua così, regalerà grandi soddisfazioni.

8) Il male, The Zen Circus

Qualche mese fa, per caso, ho riascoltato l’Anima non conta e quel pezzo del 2016 mi ha ricordato che Andrea Appino è uno dei più bravi autori di canzoni rock del nostro paese. Per questo il ritorno degli Zen Circus con Il male, a quattro anni dal non indimenticabile Cari fottutissimi amici, è stata una buona notizia a prescindere. Il male è caratterizzato da ottime melodie (È solo un momento, Caronte, che contiene versi memorabili come “Pensavo fosse amore, ma era troppa vodka”), condensate in un pugno di accordi sinceri. Come sempre, Appino trova il suo equilibrio nella semplicità armonica e nei fiumi di parole. Bentornati.

7) La macchia, Alfio Antico e Go Dugong

Il siciliano Alfio Antico è una specie di mito della musica italiana, uno dei più bravi percussionisti del mondo, oltre che cantautore e attore. Per questo il suo incontro con il producer elettronico Go Dugong è stato magico, inebriante, e ha prodotto un album splendido intitolato La macchia, pubblicato nell’ambito del progetto Baccano dell’università Luiss di Roma, un’etichetta fondata per omaggiare la tradizione italiana grazie al dialogo tra artisti di diverse generazioni. Brani come Trezzatura tagliente e Carne rispettano questo spirito: sono antichi come pietre, eppure per qualche motivo potrebbero venire dal futuro.

6) Una lunghissima ombra, Andrea Laszlo De Simone

L’esperienza con le colonne sonore (quella per il film di Thomas Cailley The animal kingdom gli ha fatto vincere un premio César in Francia) ha allargato i confini del cantautorato di Andrea Laszlo De Simone, che in Una lunghissima ombra ha avvolto le sue canzoni dal sapore rétro con arrangiamenti orchestrali, lunghe introduzioni e code strumentali. Il suo percorso resta unico, e non è solo una questione di riservatezza. De Simone vive ritirato, ma è proprio da questa condizione che nascono le sue canzoni senza tempo. Una lunghissima ombra è il ritratto di un cantautore che si nasconde dietro un’ombra, ma è costantemente in divenire, in cerca d’ispirazione.

5) Canti, Vol. 2, Ondakeiki

Anche in questo caso si tratta di un ep e non di un disco, ma era da tanto tempo che un gruppo italiano non m’incuriosiva come gli Ondakeiki. La musica della band milanese formata da Rella (batteria e voce), Nicola Ferloni (basso e sampler) e Giacomo Stefanini (chitarra, sintetizzatori, tastiere e voce) suona come uno strano incrocio tra Lee “Scratch” Perry, Panda Bear e i Gorillaz. I brani degli Ondakeiki si sviluppano su ritmiche dub ma attingono all’immaginario della musica psichedelica anni sessanta e settanta, anche dal punto di vista testuale. Dire che non suonano come nessun altro in Italia potrebbe sembrare una frase fatta, ma è proprio così. Merito degli incastri ritmici (menzione d’onore per i giri di basso di Ferloni) e di un’architettura sonora che avvolge l’ascoltatore come una spirale.

4) Schegge, Giorgio Poi

Ogni disco di Giorgio Poi ha la sua specificità. Schegge è il suo disco più malinconico e astratto. È stato registrato in collaborazione con Laurent Brancowitz dei Phoenix e rappresenta un altro passo avanti nella sua parabola artistica. Schegge contiene pozzetti di pop pieni di spleen estivo, con le chitarre acustiche che dialogano con i sintetizzatori e la voce mixata come se fosse uno strumento tra gli strumenti. A tratti Giorgio Poi spicca il volo e regala brani davvero di alto livello. Su tutte svetta Uomini contro insetti, che ha un andamento da chansonnier francese e contiene uno dei versi più belli del 2025: “Le canzoni sono sempre ridicole”. Nel senso che qualsiasi forma d’arte impallidisce di fronte alla vita reale. Schegge è il disco migliore di Giorgio Poi.

A proposito di colonne sonore, Teho Teardo nel 2025 ha omaggiato a suo modo Angelo Badalamenti e David Lynch. A questo progetto lavorava da tempo, ma il fatto che sia uscito proprio nell’anno della mortedel regista statunitense lo rende ancora più toccante. Registrato in collaborazione con Stefano Bollani, Keeley Forsight e altri, Plays Twin Peaks and other infinitives ha il pregio di rendere onore a Badalamenti e Lynch con gusto ma senza retorica. Teardo affronta le musiche di Twin Peaks in punta di piedi, con un tocco morbido ma intenso. Il disco, però, non si ferma qui, e contiene brani inediti ispirati alle composizioni di Barbara Strozzi, Henry Purcell e J.S. Bach, frutto anche di registrazioni notturne fatte nei boschi al confine tra Italia e Slovenia. Plays Twin Peaks and other infinitives conferma che Teho Teardo è un patrimonio della musica “altra” italiana.

2) Furesta, La Niña

La musica campana regala da sempre tesori. Uno di questi è Carola Moccia, cantautrice e attrice cresciuta a San Giorgio a Cremano e approdata nel 2019 a una carriera solista che dopo un paio d’anni di assestamento l’ha portata a trovare l’identità sonora definitiva con Vanitas (2023) e soprattutto con l’ultimo lavoro, Furesta, salutato anche da un discreto successo di pubblico. La musica della Niña è sensuale, travolgente e suona fresca nonostante sia radicata nella tradizione della musica popolare di Napoli e di tutta la regione, in particolare delle aree rurali. Dall’inno femminista Figlia d’‘a tempesta all’ipnotica Sanghe, registrata insieme all’artista egiziano Abdullah Miniawy, Furesta è un trionfo di ritmi e melodie, una tammurriata contemporanea che si apprezza ancora di più quando La Niña la porta dal vivo, capace d’infiammare il palco.

1) Ranch, Salmo

La rinascita di Salmo si apre con una preghiera. Il primo brano del suo settimo album comincia con un campionamento di Ave Maria catalana di Maria Carta, cantante e attrice nata in provincia di Sassari che ha fatto del recupero della tradizione sarda una missione di vita. L’organo e la voce di Carta danno al pezzo una certa solennità, che viene squarciata dal beat del produttore Low Kidd e dalla voce di Salmo, che evoca una “Ave Maria piena di rabbia” e implora: “Fatemi uscire, sono il cane che abbaia”.

Ranch è un viaggio nel cuore di tenebra sardo. Salmo l’ha registrato in isolamento, dopo che si è trasferito da Milano in una casa sulle colline della Gallura. Il ritorno alle radici sembra averlo sbloccato e gli ha fatto recuperare un’ispirazione che gli mancava da tempo. Ranch è un disco vario dal punto di vista stilistico. In Crudele Salmo racconta la storia della famiglia di suo padre, cresciuto in Barbagia. “Mio bisnonno ha fatto a pezzi suo cugino / e l’ha sotterrato in giardino / dicci dov’è il suo corpo o fai la stessa fine / Il sangue segnava il confine, la famiglia si divise”, rappa nel primo verso del brano, che poi passa in rassegna le vicende del nonno alcolizzato, che abbandonò suo padre, costretto a vivere “nel fottuto castello delle streghe” con i sei fratelli e la madre. La narrazione arriva fino a Salmo, il primo della famiglia in grado rompere il sortilegio della povertà grazie alla musica. Un altro brano notevole è Bye bye, arricchito dall’unico featuring del disco, quello di Kaos. In Sangue amaro Salmo si riscopre cantautore, e gioca con sonorità quasi blues, mentre in Mauri mette in musica la sua crisi artistica e personale. Ranch è il disco rap più importante dell’ultimo decennio in Italia insieme a Persona di Marracash.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it