28 settembre 2017 13:02

Tutto è cominciato all’alba del 19 marzo del 2015, quando le truppe fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, alleate dei ribelli houthi, hanno attaccato l’aeroporto di Aden, nello Yemen, difeso dai soldati di Abd Rabbo Mansur Hadi, il presidente yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale. Il conflitto è precipitato con l’intervento dell’Arabia Saudita, che insieme a una coalizione di cui fanno parte Egitto, Giordania, Sudan e Pakistan ha deciso di sostenere militarmente Hadi.

Dopo più di novecento giorni di guerra il bilancio è catastrofico. Le Nazioni Unite calcolano che finora i bombardamenti hanno ucciso diecimila civili. Due terzi della popolazione ha difficoltà a procurarsi cibo e acqua potabile. Sette milioni di yemeniti, tra cui 2,3 milioni di bambini, sono sull’orlo della carestia. Un’epidemia di colera, la più grave nel mondo dal 1949, ha ucciso duemila persone e ne ha infettate più di seicentomila.

Le strutture sanitarie sono fuori uso. La produzione agricola è crollata. I centri urbani e le vie di comunicazione sono distrutti. Ventotto milioni di yemeniti sono intrappolati in quello che alcuni hanno definito un assedio di tipo medievale. Al disinteresse generale contribuisce la difficoltà per i giornalisti stranieri a entrare nel paese.

Nessuno pensa che sospendere la fornitura di armi italiane all’Arabia Saudita (427 milioni di euro nel 2016) sia sufficiente a fermare i bombardamenti, ma certo sarebbe un segnale. E seguirebbe l’esempio di Germania, Svezia e Paesi Bassi, oltre ad accogliere l’appello di una serie di organizzazioni tra cui Amnesty international e Oxfam. Ma il 19 settembre la camera dei deputati si è opposta e, con il contributo decisivo del Partito democratico e di Forza Italia, ha respinto una mozione che chiedeva l’embargo immediato: 301 voti contrari, 120 a favore, un astenuto.

Questa rubrica è stata pubblicata il 29 settembre 2017 a pagina 9 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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