11 marzo 2021 18:40

Zeynep Tufekci è nata in Turchia e insegna sociologia all’università del North Carolina a Chapel Hill, negli Stati Uniti. Si occupa dell’impatto sociale delle tecnologie e nell’ultimo anno ha scritto alcuni degli articoli più lucidi sulla pandemia. In un ritratto uscito sul New York Times, Ben Smith l’ha definita una persona che “ha l’abitudine di aver ragione sulle cose importanti”. Il suo libro del 2017 si intitola Twitter and tear gas (Twitter e gas lacrimogeni), è sulla forza e la fragilità delle proteste in rete e non è ancora tradotto in Italia.

Di Tufekci abbiamo già pubblicato due articoli. Il primo, uscito alla fine di agosto, era sull’importanza dell’aerazione nella prevenzione del covid. Il secondo, a ottobre, spiegava perché gli “eventi superdiffusori” sono stati il principale motore della pandemia. Il terzo, che pubblichiamo questa settimana, descrive gli errori che abbiamo fatto finora e spiega perché, malgrado tutto, dobbiamo essere ottimisti.

Tufekci racconta che deve molto a un’infanzia che non augurerebbe a nessuno e a tre ingredienti: un punto di vista internazionale acquisito rimbalzando tra Turchia e Belgio quand’era bambina e poi lavorando negli Stati Uniti; una conoscenza che attraversa le aree tematiche e le discipline accademiche, frutto del suo essere una programmatrice informatica che si è avvicinata alla sociologia; un’abitudine a ragionare su sistemi complessi. Ma tutto è cominciato crescendo a Istanbul “in una casa infelice” con una madre alcolizzata.

A metà degli anni novanta, ancora adolescente, è andata via e ha trovato lavoro all’Ibm. La sua vita è cambiata quando ha scoperto una mailing list sul movimento zapatista, la mobilitazione degli indigeni messicani contro la privatizzazione delle terre. Nel 1998 è andata in Chiapas. La rete di relazioni che ha costruito in quegli anni è stata fondamentale. “Tufekci è l’unica persona con cui ho mai parlato convinta che l’era moderna sia cominciata con la solidarietà zapatista”, ha scritto Ben Smith. “Per lei è stato un primo bagliore della ‘globalizzazione dal basso’”.

Questo articolo è uscito sul numero 1400 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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