Alessandra Quarta e Michele Spanò (a cura di),Beni Comuni 2.0
Mimesis, 220 pagine, 20 euro
Oggi in Italia non succede spesso che studiosi di meno di trentasei anni siano chiamati a discutere dei modi per superare le crisi che stiamo attraversando: quella economica, quella della rappresentanza, quella della capacità di modificare le cose. Proprio questa generazione tuttavia ha vissuto in modo più diretto l’avvento di queste crisi ed è dunque forse più titolata a intervenire.
Questo libro raccoglie gli interventi intorno alla questione dei beni comuni di 15 ricercatori nati negli anni ottanta. A unire i loro articoli, però, non è solo la data di nascita. C’è innanzitutto l’idea che non basti opporsi con forza ai tentativi di privatizzazione di risorse un tempo considerate pubbliche (come l’acqua o un terreno comunale), ma occorra estendere il concetto di bene comune ad altri beni (le case sfitte o i teatri in disuso per esempio) per fare in modo che la tutela della proprietà privata non calpesti ogni altra cosa.
Il secondo punto in comune è la convinzione che si possa farlo per mezzo del diritto: non solo esigendo che siano varate nuove leggi, ma anche e soprattutto usando a questo scopo princìpi e norme che già esistono. Complessivamente emerge una nuova idea politica, capace di teorizzare ma ancorata al concreto, un’idea che, a giudicare da alcuni casi analizzati, senza che ce ne stiamo accorgendo sta già producendo frutti.
Questa rubrica è stata pubblicata il 2 giugno 2016 a pagina 84 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati
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