06 settembre 2015 13:49

Tra la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli ottanta del novecento il cinema statunitense era dominato da due grandi filoni.

Uno metteva in scena l’ossessione per l’idea tutt’altro che campata in aria delle cospirazioni all’interno di un sistema di potere bloccato (con Cia ed esercito al centro). Su questo si espressero gli ultimi grandi autori di una grande generazione: Arthur Penn, Robert Altman, Francis Ford Coppola (con il suo film più bello, La conversazione) e più tardi Stanley Kubrick con il suo ultimo capolavoro Eyes wide shut.

Il secondo dette vita a una straordinaria stagione del cinema orrifico, speculare a quella degli anni di Weimar in Germania e della grande crisi negli Stati Uniti. In questo si espressero, a fianco del Kubrick di Shining, autori di genere spesso allievi di Roger Corman e delle sue produzioni a basso costo, come Martin Scorsese e Steven Spielberg, i più ambiziosi e spregiudicati.

Erano gli stessi anni nei quali qui da noi ci fu l’ultima esplosione del cinema popolare poliziottesco ed erotico, molto più trash di quella americana, ma ugualmente significativa a livello antropologico e storico: segnava la fine di un’epoca, e una cultura e un popolo ci buttavano dentro tutto il loro “basso” prima di appianarsi nel conformismo (molto più disgustoso, a ben vedere) degli anni craxian-berlusconian-veltroniani.

La morte a 76 anni di Wes Craven, uno dei protagonisti di quella stagione sopravvissuto al suo tempo e al suo successo, uno has been, come dicono spietatamente quelli dello star system anche politico e culturale, permette di ricordare con l’attenzione che merita quel periodo e quel genere.

Personalmente, ho molto apprezzato quel cinema, imparando presto a chiudere gli occhi come i bambini quando si faceva più macabro. Lo apprezzavo non solo per la sua qualità spettacolare, ma anche come un’occasione per riflettere sulla società statunitense e, più alla lontana, anche sulla nostra, che tanto ne è stata conquistata e condizionata almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

George A. Romero, un precursore con la sua Notte dei morti viventi, e i film di vampiri inglesi ci avevano abituati a una sana distinzione tra i vivi (rimasti pochi, come nei romanzi di fantascienza e in Io sono leggenda di Richard Matheson) e i vivi-morti (che oggi probabilmente sono la stragrande maggioranza del genere umano quantomeno occidentale e ahinoi anche italiano).

Videodrome di David Cronenberg, 1983. (Everett/Contrasto)

Ora dall’horror apprendevamo, con una lucidità spaventevole, che il male si nascondeva nella normalità delle nostre vite: i mostri nascevano dal cuore della famiglia o uscivano dal televisore come in Poltergeist per rubarci i bambini, che già in Rosemary’s baby, nel Presagio, nell’Esorcista, in Carrie, in Halloween e in Baby killer erano prigionieri del male e si facevano suoi emissari (i bambini, cioè il futuro); salivano dagli scantinati e da quel che c’era ancora più sotto in La casa e in Non aprite quella porta, mentre in Shining emergevano dalle fondamenta di un grande albergo costruito su un cimitero indiano; e nel più geniale di quegli autori, David Cronenberg, avevano conquistato il mondo dei mezzi di comunicazione (Videodrome) e della politica (Zona morta), nascevano sotto la nostra pelle (Scanners) o in laboratori scientifici che pretendevano di guarirci (Brood).

Più “autore” di tutti, arrivò infine David Lynch a insistere in modi più complessi e perfino più visionari, più extra-genere, più “puritani”, sull’impossibilità di sconfiggere il male, sociale ma anche intimo, morboso, originario, e misteriosamente coinvolgente. John Carpenter, Tobe Hooper, George Romero, Brian De Palma, Wes Craven, Joe Dante, Steven Spielberg eccetera: una schiera di portatori di horror in cui il pubblico americano si riconobbe senza però che qualcuno, dopo averlo sconvolto, lo aiutasse a ragionarci sopra.

Tra di loro, Wes Craven, laureato in filosofia, era uno di quelli che credevano di più in quel che facevano e che, in definitiva, attribuivano al proprio lavoro una funzione socioculturale che mettesse in luce (nel buio!) le contraddizioni di una società e di un modo di vivere. L’horror statunitense di quegli anni, come i romanzi di Stephen King peraltro, non è stato un fenomeno retrogrado, è stato tutt’altro.

A Craven dobbiamo almeno due film molto importanti, Scream (con la forte idea della maschera dell’Urlo di Munch) e prima ancora Nightmare: dal profondo della notte, dove il terrificante assassino Freddy Krueger (interpretato da Robert Englund, che ho avuto modo di conoscere e intervistare quando venne a Palermo per un film di Ciprì e Maresco, e i bambini lo riconoscevano entusiasti avendolo visto senza maschera mangiare insetti nei Visitors televisivi) era un prodotto dei sogni malati di una generazione di giovani.

Quella generazione ha ormai imboccato la terza età. In quegli anni aveva perduto ogni speranza di cambiare il mondo e aveva finito per crederlo immutabile regno del male, ma non si era ancora assuefatta alle tante droghe venute dopo e al dominio sulla “comunicazione di massa”, Hollywood compresa, della finanza e dei suoi servi e alleati, con in testa la polizia, l’esercito, il sistema dello spettacolo, l’editoria.

L’horror che questi film prevedevano è di un tipo diverso da quello dei nuovi mezzi, che è infinitamente più sinuoso e astuto nel conquistare le menti e distruggere i corpi. Chi sa come sono oggi, di notte, gli incubi degli zombie?

La notte dei morti viventi di George A. Romero, 1968. (Everett/Contrasto)

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