23 maggio 2016 15:25

L’ostinazione con la quale Paolo Virzì persegue il suo progetto di proseguimento della commedia all’italiana ha qualcosa di commovente, e di esasperante. Sono passati da tanto i tempi di Age e Scarpelli, Maccari e Scola, Monicelli, Comencini, Risi, Sordi, Gassman, Tognazzi, Vitti e anche Sandrelli: i tempi dell’accostamento al boom, della frenesia del boom, del cupo dopo boom, quando l’Italia si è ritrovata strada facendo priva di rivendicazioni operaie e contadine, studentesche e femminili e appiattita in un eterno presente di segno berlusconiano (e se craxiano o veltroniano o napolitan-montiano o renziano il discorso non cambia), a dominante piccolo-borghese e con maggioranze e minoranze ugualmente, con rare eccezioni, prepotenti e televisivamente sguaiate, con intellettuali egomaniaci ed esibizionisti prigionieri di una smania “comunicativa” che non porta da nessuna parte.

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L’analisi di Virzì (quella degli ultimi due film) richiama quella della commedia nera. Ricordate Un borghese piccolo piccolo? Parenti serpenti? Ma i modi sono ancora quelli degli anni sessanta, non solo per l’ambientazione tosco-versiliana che chiama alla mente Il sorpasso, Una vita difficile, anche per la forza dei personaggi femminili, rara in questi tempi complici e piacioni anche su quel versante.

La storia narrata ha qualche assonanza, ma con lieto fine, anche a quella di Thelma e Louise, ma il vagabondaggio delle due strane amiche, squinternate e poco assortite, la ricca ossessivamente estroversa e la quasi-povera depressa, con i rispettivi ambienti originari produttori del loro disagio e della loro crisi, è paesano e poco eccentrico. Tuttavia quanto basta a definire un campo sociale e culturale a dominante stupidamente maschile (fuori della casa di cura, non dentro – e anche questo può sembrare un buon segno, quello di una quasi parità tra gli operatori).

Il film è tutto in questa fuga, e ha narrativamente il solo limite dell’eccesso, un po’ come capita oggi ai romanzi in voga dove ci sono sempre episodi o pagine di troppo. L’arte dell’ellisse è sempre più rara. Virzì e la sua cosceneggiatrice Archibugi hanno imparato tante cose dal loro maestro Furio Scarpelli (soprattutto dalla sua fase ultima, la più conciliante, e non da quella più esplosiva degli anni d’oro e della collaborazione con Age), ma non hanno affatto imparato quella di saper sfrondare, di saper tagliare il superfluo e il ridondante.

Il film tiene, l’ambiente è credibile, le due attrici bravissime, anche se è come se lo fossero troppo o troppo a lungo, e un’Italia ostinatamente berlusconiana è ben narrata nelle sue frange provinciali che sono alla fine esemplari di tutto il resto, con il suo “generone” senza nord e senza sud, di una volgarità che accomuna gli educati e i maleducati, i ricchi e i normali.

È un bel film, dunque, La pazza gioia? Lo è senz’altro, ma come si evince da quanto ho cercato di dire, sembra un film di ieri, ricorre a un modo di narrare che non sembra appartenere più all’oggi. Come se gli autori fossero ben coscienti della perennità di una cultura (che ormai ha più di trent’anni di vita), ma non delle contraddizioni che ci attraversano oggi, e della ricerca di modi di analizzare e narrare all’altezza del tempo che viviamo, dei suoi e dunque nostri dilemmi. È un buon film, La pazza gioia? È un buon film “tradizionale”, è un buon film di ieri mentre noi, incontentabili, vorremmo da Virzì un buon film magari meno buono ma più di oggi, dentro l’oggi nelle sue espressioni e nei suoi esiti quotidiani come nella scelta di un linguaggio che vi corrisponda.

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