30 maggio 2016 18:32

Dopo L’estate di Giacomo (2011), il film che ci rivelò il suo talento, fatto di vagabondaggi estivi sulle rive del Tagliamento di un giovane sordomuto e di una sua amica, pronti a entrare nell’età adulta ma ancora dentro l’adolescenza, con I tempi felici verranno presto Alessandro Comodin, friulano che vive in Francia, ci trasporta in una terra di nessuno, dentro una foresta ideale dove si avanza tra storia e fiaba. Lo fa senza dare allo spettatore una precisa definizione d’epoca o un preciso schema narrativo, senza una storia filata, senza un racconto plausibile, provocatoriamente togliendogli ogni spiegazione, costringendolo a farsene una personale e semmai suggerendo, mai dichiarando. E sostituendo al tutto solare del primo film un’ombra difficile da penetrare, senza curarsi di aiutare lo spettatore. Se la veda da sé. Capisca chi vuole.

I tempi felici verranno presto

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Quest’ermetismo è forse eccessivo, ma anche benvenuto: basta con i film che spiegano tutto, che non suggeriscono niente, sembra dire Comodin. Se, come diceva Buñuel, la visione di un film (la proiezione in sala) è sempre un’avventura psicologica individuale, è entrare in una dimensione altra più vicina a quella del sogno che a quella della realtà, ben venga chi riesce a farci entrare nel suo sogno comunicandocene le emozioni e il mistero, invitandoci a interpretarlo ognuno a suo modo.

Diviso in blocchi, il filo narrativo che si può indovinarne è in sostanza semplice anche se nell’ordine del fiabesco e non della cronaca. Due giovani fuggono nella notte (di dove?), si avventurano nel bosco, giocano, s’imbattono in un cadavere. Una ragazza sempre accompagnata dal suo asino scava una buca (alla ricerca di che?) e scopre un tunnel (che porta dove?). Si lava in un’acqua melmosa come un fango originario. Sale sul trattore di un amico o parente e la loro allegra corsa è accompagnata da una canzonaccia degli anni trenta del Trio Lescano. Gli abitanti di alcune case sparse ai margini del bosco, danno la caccia a un lupo. La ragazza incontra il più giovane dei due fuggiaschi, e nuotano insieme, e si amano. Il lupo è (forse) il ragazzo: “Venire da nessun luogo è la mia più grande disgrazia”.

Questo è il riassunto che, a qualche giorno di distanza dalla visione del film e senza l’ausilio di materiale per la stampa o delle dichiarazioni di intenti dell’autore, ci si sente di fare di questo film oscuro e affascinante. Tutto questo rimanda nel mio inconscio – il mio, non quello di altri spettatori, che hanno avuto o avranno reazioni e rimandi diversi da questo a seconda delle loro esperienze – a racconti contadini non offuscati da costruzioni illuministiche, alla memoria (collettiva, soggiacente) della guerra, alle fiabe di Pollicino che si perde nel bosco, di Cappuccetto Rosso che incontra il lupo. Tra natura e storia, confusamente.

Appunto: confusamente. Comodin ha probabilmente esagerato nel lasciare lo spettatore confuso, non assistendolo, sfidandolo. Ma riesce egregiamente a spiazzarlo e a farlo entrare volente o nolente nel gioco che gli ha predisposto, a farlo reagire alla sua tentazione. Senza violenza, perché possa conoscersi meglio confrontandosi con le insicurezze archetipiche che restano nel fondo, nel tunnel, di ognuno di noi. L’importante è che lo spettatore sogni, si confonda, e poi si desti, stia al gioco, se ne lasci prendere, vi sprofondi e poi ritorni a galla quando in sala si riaccendono le luci, e cerchi allora una spiegazione.

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