I nuovi film messicani che arrivano ai festival sono perlopiù l’opera di rampolli della ricca borghesia che hanno studiato negli Stati Uniti e somigliano a tanti altri come loro in giro per il mondo: seguono ciò che accade e vi pescano storie più o meno significative e importanti per i temi che affrontano (o per le ingiustizie che rivelano) e ne fanno… hamburger, con contorni molto colorati e intenzioni provocatorie, prodotti disinfettati e astuti che rubano alle ricerche altrui modi di narrare effettivamente nuovi e ne fanno merce perlopiù da boutique, normalizzata ma con quella patina di originalità che piace tanto ai “consumatori intelligenti” al passo con i tempi, lettori delle rubriche giuste.
Accade in tutte le arti, e questo produce, di conseguenza, un’omologazione di fatto pur nella varietà apparente delle proposte. Succede da secoli e non c’è da scandalizzarsene più che tanto. Anche se in questo modo diventa difficile distinguere le ricerche motivate e autentiche dai tanti derivati, perché essi sono, almeno in parte, intelligenti, e sanno come conquistare i critici consoni a questo tipo di cultura, cresciuti in questo tipo di cultura. Insomma, distinguere il prodotto originale dalle sue parodie (nel senso di imitazioni e rimasticature) non è semplice, anche perché i giovani registi hanno studiato e letto e visto molto, conoscono la storia del cinema e il cinema più notevole che si fa nel mondo.
Güeros di Alonso Ruiz Palacios è una parodia, bensì di più cose, c’è di tutto e di più ma, come succede di rado, la mescolanza e l’eccesso realizzano comunque un film di grande interesse, forse proprio per questo. E il regista certamente ci contava. Un ragazzino di carnagione chiara (cioè güero, diverso in apparenza perché con meno sangue indio nelle vene) è spedito dalla madre da Veracruz nell’enormità di Città del Messico, l’immensa capitale, in casa di un fratello, chiamato Ombra, che frequenta poco l’università (dove gli studenti sono in perenne e poco produttiva agitazione). Vive con un amico che ragiona come lui. I tre hanno in comune un mito trasferitogli dai loro maggiori, quello di un cantante rock che commosse perfino Bob Dylan, ora vecchio, malato, dimenticato.
Il film si articola in capitoli che seguono la topografia della grande città avvicinandosi infine al centro dove vivono i ricchi. È il resoconto di una notte brava piena di incontri balzani, di ambienti disparati perlopiù massificati o marginali. Punto d’arrivo dovrebbe esserne lo zoo, dove vive la donna che ha assistito il vecchio cantante, ma poi i tre finiscono casualmente di fronte al bar frequentato dal vecchio cantante ormai indifferente alla vita. All’università ai tre si è aggiunta la ragazza di Ombra, combattiva ma disincantata militante. Nell’università, abbiamo assistito ad assemblee molto gridate, con l’abituale casino delle occupazioni, gli slogan di rivolta e l’azzuffarsi tra tendenze, con azioni poco concludenti e molto ideologiche.
Dentro e fuori quel mondo e attraversando più mondi, ci si scopre la città nella variegata fatica di vivere che è dei più ma dal punto di vista di una generazione nuova, proprio di oggi, in sospeso non si sa bene tra cosa, se non tra lo sforzo di esistere più che quello di contare, con giovani che ripetono vecchi riti e sembrano però bloccati nell’azione. Sembra un po’paradossale che non si parli mai di globalizzazione, di nuovi rapporti mondiali (o di quello con gli Stati Uniti).
Il regista racconta tutto questo, che non è nuovo ma è molto interessante per la scoperta di una città e di una generazione, in un bianco e nero proditorio e bellissimo, seguendo i modelli della nouvelle vague francese degli anni cinquanta-sessanta. Cerca l’originalità imitando un passato che non gli appartiene, da cinefilo ostinato e un tantino ossessivo, feticista. Spezza il racconto, inquadra gli ambienti e i personaggi, muove la macchina e si serve dei suoni e delle musiche con la libertà dei Godard più avventurati (e il personaggio femminile è un’Anna Karina un poco più energica), e cambia ritmo, divaga, ritorna, corre, si ferma, cambia strada, riprende a correre, si ferma di nuovo cercando però di far sembrare questo stile uno stile nuovo. Com’è in effetti per spettatori che ignorano la storia del cinema, per giovani che non hanno visto quel che è venuto prima del primo Tarantino o, tutt’al più, del primo Moretti.
In più modi il giovane Ruizpalacios dichiara i suoi debiti verso il passato, anzi non fa altro che riflettere sull’oggi riportando in vita i modi di narrare dei giovani di ieri. Sa che quel passato è inerte (il cantante, il confronto con le rivolte passate e con la sensazione di impotenza e di recita-sfogo che danno quelle di oggi), sa che questa gioventù è in gabbia come la tigre che ci fa vedere agitarsi inutilmente nello zoo, e affida al ragazzino güero, al suo sguardo curioso e partecipe, la speranza del domani. Anche questo è un discorso di ieri: sperare che i nostri fallimenti vengano vendicati o superati dai nostri figli o nipoti. E in fondo è tutto quello che alla fine ci resta di un film che si voleva tempestoso e provocatorio: gli occhi di un ragazzino che chissà cosa avrà imparato dal girovagare con il fratello, il suo amico, la ragazza.
Ruizpalacios ha affrontato questioni gravissime, cercando di ridar vita alla sveglia vitalità di modi del passato, rivissuti con libero disordine, ma lasciandoci nel dubbio sulle sue vere qualità. Che è poi quel che ci viene da pensare di fronte all’opera di molti giovani registi, il vecchio dilemma del “ci sono o ci fanno?”, sono mossi da spinte generose o da studiata scaltrezza? O da tutt’e due? Come che sia, siamo grati al regista di averci mostrato la grande capitale federale nella sua complessità e vastità e come pochi hanno tentato di fare.
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