Julian Barnes, Il rumore del tempo
Einaudi, 192 pagine, 18,50 euro
Barnes è uno dei maggiori scrittori viventi, uno da Nobel, e ha esplorato il mondo intellettuale, non solo quello inglese, come pochi hanno saputo fare. Qui affronta Dmitrij Šostakovič, che molti (e io sono tra loro per il poco che posso capirne) considerano con Stravinskij, che preferì la fuga in occidente, uno tra i più grandi compositori del novecento.
Non ha avuto vita facile, il russo: uomo di forti contraddizioni sul piano privato, e costretto a confrontarsi su quello pubblico con l’orrore dello stalinismo riuscendo a non farsene schiacciare, accettando con fatica umiliazioni e imposizioni anche al tempo di Chruščëv (non meno rozzo di Stalin quanto a cultura). Si veda la recensione di Jeremy Denk (Internazionale 1170): “una parabola di degradazione umana senza violenza ma con un’onnipresente minaccia di violenza”. E tuttavia, anche quando si è piegato, soprattutto da vecchio, ha mantenuto un suo rigore di grandissimo artista. Si fa presto ad accusarlo, ma Barnes non lo fa.
Romanziere più che biografo, ne traccia un ritratto probante e a suo modo commovente. Ma delle traversìe di Šostakovič si sapeva già tutto, e ci si chiede se non sarebbe stato più utile che Barnes raccontasse le viltà, meno giustificabili, degli artisti e intellettuali di oggi, anche nella sua Inghilterra.
Questa rubrica è stata pubblicata il 16 settembre 2016 a pagina 78 di Internazionale.Compra questo numero | Abbonati
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