04 aprile 2017 14:53

Vale la pena di parlare del film spagnolo La vendetta di un uomo tranquillo (migliore il titolo originale: Tarde para la ira) di Raúl Arévalo, prevedibile e mediocre, e proprio perché è prevedibile e mediocre, perché è un buon esempio di quel che si fa nel cinema “ufficiale” europeo e in quello di mezzo mondo o di tutto il mondo. L’autore è un esordiente, probabilmente ha fatto qualche scuola di cinema, e sa inventare e mettere in scena una storia che crede significativa e intende che per molta parte del pubblico e della critica risulti tale.

Un film che possa piacere e anche incassare più di quanto è costato, in modo da permettere al regista di avere un futuro, una carriera. Non un film di mera evasione, però, perché quelli allontanano la critica e non vanno bene per i festival, e di conseguenza non procurano vendite all’estero.

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Un film “ben fatto”, o almeno ben fatto secondo i criteri correnti, diversi da quelli del cinema degli studios di un tempo. Un film di genere ma che possa incuriosire anche oltre, e piacere a qualche critico che si sente intellettuale perché affronta tematiche alte, con un sottofondo che è perfino etico e religioso e che potrebbe dunque far discutere e magari far pensare (due operazioni diverse: discutere è facile e viene bene a tutti, pensare è molto più difficile e raro).

La curiosità dello spettatore
Un soggetto originale, anche se tanto originale non è e ha – proprio perché legato al genere – esempi a cui rifarsi nel cinema classico: molta azione, un po’ di suspense o quantomeno di risveglio della curiosità dello spettatore per come andrà a finire, ma intorno a un tema forte anzi fortissimo, e a personaggi che si vuole siano comuni, proletari o piccolissimo-borghesi di oggi piuttosto che borghesi o lumpen.

Di vendette è piena la storia del giallo scritto e filmato, non solo quello di marca statunitense, così come di vendette per la perdita di una persona cara in mezzo a sparatorie occasionali tra guardie e ladri, vendette messe in atto ostinatamente e minuziosamente da persone pacifiche e tendenzialmente non violente.

Il più alto esempio che mi viene in mente è quello di La sposa in nero di Truffaut, da un gran bel romanzo di Cornell Woolrich: a Jeanne Moreau ammazzano il fresco sposo in una casuale sparatoria tra gangster, sul sagrato della chiesa da cui stanno appena uscendo, e lei riuscirà a rintracciare e a far fuori tutti i colpevoli. Chi subisce un torto gravissimo (o lo vede subire ad altri) può diventare a sua volta spietato nella sua sete di vendetta.

Il male come risultato della reazione al male subìto o visto subire da persone care, o semplicemente, come nel caso di tanti ribelli di ogni tempo, su su fino a Ulrike Meinhof, da persone e categorie e popolazioni deboli oppresse da politici e militari.

Arévalo ha cucinato con i suoi collaboratori un prodotto che unisse la suspense e la problematica alta, ma gli manca il rigore della forma

  È un tema più presente nella cultura tedesca che in altre: Kleist nel _Michael Kohlhaas_ e Schiller nel _Delinquente per infamia_ l'hanno affrontato magistralmente già nell'ottocento e al cinema l'ha fatto più volte Fritz Lang, loro allievo, da _Sono innocente_ a _Il grande caldo,_ due capolavori del cinema di genere.   

Arévalo probabilmente li conosce, e sicuramente ne conosce le varianti più recenti e meno ambiziose, e ha pensato che l’occasione di tornarci sopra era perfetta per un film di questi anni, con l’innocente diventato criminale per sete di giustizia e di vendetta, ambientando la storia nella Spagna di oggi, metropolitana come provinciale, e in un contesto comune riconoscibile ai più.

Ha cucinato con i suoi collaboratori un prodotto che unisse nel racconto la suspense e la problematica alta, ma quel che gli è mancato, e che manca a quasi tutto il cinema medio e ben fatto e normale di questi anni – non ai supercolossi e non ai piccoli film generosi di un cinema di ricerca e di novità e di verità – è il rigore della forma. Gli manca, ancora una volta, uno stile.

Troppa approssimazione
La sua regia è media e mediocre, spesso trasandata, come il montaggio. Non ha certamente le ambizioni che potevano avere i grandi registi più liberi e meditanti (un Bresson, ma anche un Becker o un Truffaut o un Fassbinder, o gli inglesi figliocci di Graham Greene in Europa; un Lang, ma anche tanti piccoli maestri del cinema noir negli Stati Uniti; e alcuni registi giapponesi maggiori e minori eccetera) e si avverte in lui una mancanza di convinzione, un’approssimazione sia formale sia di contenuti, e diciamo pure etica.

Il suo film, dunque, è tipico di un midcult che affronta grandi temi e imita grandi maestri facendone prodotti mediocri, ma abbastanza astuti da compiacere il gusto e la superficialità del pubblico e della critica dei nostri tempi.

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