17 aprile 2018 16:57

La settimana scorsa sono morti due registi che ho avuto la ventura di conoscere anche se superficialmente: il ceco Miloš Forman, emigrato a Hollywood dopo la fine della “primavera di Praga”, durata dal 1962 all’agosto del 1968, e l’italiano Vittorio Taviani, che ha sempre diretto i suoi film in coppia con il fratello Paolo e all’inizio della sua carriera anche con Valentino Orsini. Li collego idealmente a un’epoca che è anche quella di chi frequentava in gioventù il festival di Venezia, dividendo al Lido una tenda con qualche amico, di solito latinoamericano, conosciuto in Francia e futuro critico o regista.

Erano gli anni sessanta e si viveva il fervore delle nouvelles vagues e un generale risveglio delle società, grazie alla coesistenza pacifica tra Stati Uniti e Unione Sovietica, alle grandi lotte di liberazione anticoloniale (prime fra tutte quella algerina e quella congolese con il grande e tragico Lumumba), alla vittoria di Cuba (con il grande e tragico Che Guevara), alle guerriglie latinoamericane e, nel mondo occidentale, ai movimenti statunitensi dei neri – da M. L. King a Malcolm X – e degli studenti, a partire da Berkeley.

L’esplosione del ‘68 non c’era ancora stata ma molti eventi la annunciavano, e furono proprio le nouvelles vagues a prepararla: nel cinema (da Godard a Oshima, da Pasolini a Tarkovskij), nel teatro (Beck, Bene, Brook, Pinter, Grotowski, Kantor…) e nella musica dai Beatles a Dylan, senza dimenticare l’esplosione del rock.

Un’evidente contentezza
Di tutto questo il festival del cinema rendeva conto presentando ogni anno novità da quasi ogni parte del mondo, e fu in questa atmosfera che scoprimmo anche la “nuova onda” dei paesi dell’Europa orientale. Vidi nel 1963 a Venezia L’asso di picche del giovane Forman e, negli anni successivi, Gli amori di una bionda e Al fuoco, pompieri!, e tra Venezia e Parigi i film di Evald Schorm, Jan Němec, Pavel Juráček, Jiří Menzel (questi li sceneggiava il grande Bohumil Hrabal, erede del “buon soldato Schwejk”), Jaromil Jireš, Ivan Passer e Věra Chytilová, che fu una regista originale e simpatica, e tra le rare donne alla regia di quei tempi.

Di Forman si sapeva che i suoi genitori, partigiani, erano morti entrambi nei lager nazisti, ma quest’esperienza nei paesi dell’est non era diversa da quella di altri (il padre di Andrzej Wajda, per esempio, fu ammazzato dai russi nel massacro dei militari polacchi a Katyń), e mi colpì che i suoi film, grazie all’epoca in cui erano pensati e realizzati, fossero così vitali – commedie spigliate e acute, giovani, allegre, con personaggi nei quali non era difficile ritrovarsi anche noi giovani “occidentali”. Il Partito comunista sovietico fece morire tutto questo, riportando al potere in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria governanti fedeli e servili.

Forman si era inserito con grande fiuto e abilità nel sistema capitalistico dello spettacolo americano

Avvicinai Forman insieme a Paolo Gobetti, con il quale facevamo una piccola rivista di cinema a Torino, Il nuovo spettatore cinematografico, alla fine di una conferenza stampa dopo la proiezione di Gli amori di una bionda e parlammo a lungo, lui in un francese molto stentato, con un sentimento di fraternità caldo e forte. A colpirmi non fu tanto la sua semplicità e gentilezza (non era rara nei giovani registi di allora) quanto la sua evidente contentezza, simile alla nostra, di poter parlare con persone giovani e mosse da ideali comuni.

Poi Forman emigrò a Hollywood e vi fece alcuni film molto notevoli e molto premiati, come Qualcuno volò sul nido del cuculo – da un forte romanzo di Ken Kesey e con un formidabile Jack Nicholson anarchico borderline e una bravissima Louise Fletcher sua feroce controparte nel ruolo di un’infermiera – e Amadeus, dalla commedia di Peter Schaffer su Mozart e Salieri.

Nei film americani di Forman spesso l’eroe è un ribelle, dai comportamenti anticonvenzionali (compreso Mozart!) che ha di fronte un “cattivo”o una “cattiva” che ne detesta genialità e diversità. Ma è bene ricordare dei suoi grandi successi di allora anche l’adattamento di un gran bel musical contro la guerra del Vietnam, Hair.

Forman aveva appreso molto presto, come Roman Polański, il funzionamento del sistema capitalistico dello spettacolo americano e vi si era inserito con grande fiuto e abilità. Da vecchio voleva fare un film in Europa scritto con Václav Havel, uomo politico ceco di grande coraggio ma anche eccellente drammaturgo, sull’annessione hitleriana dei Sudeti che fu all’origine della seconda guerra mondiale. Ma ormai la sua energia si era andata affievolendo e Hollywood non era più da tempo quella degli anni settanta e il sistema dello spettacolo si era fatto più controllato e meno aperto alle novità e ai discorsi critici sulla società americana.

Era rimasto, si indovina dalle sue rare sortite pubbliche, una brava persona e un onesto regista, ma era anche lui un sopravvissuto (e lo siamo in tanti, critici di un presente disastroso soprattutto moralmente) ed è legittimo, e malinconico, ricordarlo all’interno della grande stagione di speranza che furono gli anni sessanta, non solo per il cinema ma per il pianeta.

Resta, pensando a quegli anni, un’amarezza aggiuntiva, che è quella di chi ben ricorda come la reazione del nostro ‘68 all’invasione russa di Praga fu quasi inesistente, a causa delle ambiguità “leniniste” dei suoi leader, della loro idealizzazione di una rivoluzione sovietica che era peraltro lontanissima nel tempo e del tutto rinnegata dai suoi eredi o affossatori.

Mi accorgo di aver scritto troppo, e dunque, dei Taviani, a una prossima puntata.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it