08 luglio 2016 09:36

“Supponiamo che… gli iracheni provino sentimenti contrastanti riguardo all’essere invasi e che i veri iracheni, non (solo) la guardia speciale di Saddam, decidano di opporre resistenza”, aveva scritto il primo ministro britannico Tony Blair al presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel dicembre 2001, due anni prima dell’invasione dell’Iraq. Almeno Blair aveva qualche dubbio, ma nessuno dei due riusciva a immaginare che gli iracheni li avrebbero considerati invasori e non liberatori.

Sono passati 13 anni dall’invasione, e finalmente è arrivato il rapporto Chilcot, un’indagine ufficiale imparziale sui motivi che hanno spinto il Regno Unito a seguire Washington in questa impresa (negli Stati Uniti non c’è stata alcuna inchiesta del genere). Si tratta di uno studio in dodici volumi che illustra fino a che punto gli artefici di quella guerra illegale fossero sconsiderati e male informati, ma che non dice molte cose che non sapessimo già.

Le tre battaglie di Falluja

Ci sono alcuni gustosi documenti sulle connivenze tra Bush e Blair prima della guerra, come la promessa fatta da quest’ultimo nel 2001: “Siamo con voi, qualunque cosa accada”. Ma c’è relativamente poco sulle dimensioni del disastro inflitto dall’invasione agli iracheni: 13 anni di guerra, quasi seicentomila morti e un paese distrutto. È quindi un buon momento per ricordare il destino di Falluja.

Era una città di più di trecentomila abitanti, a meno di un’ora di auto da Baghdad, occupata dalle truppe statunitensi nell’aprile 2003. È stato il primo luogo dove le truppe americane hanno sparato ai civili iracheni (che stavano protestando contro l’occupazione di una scuola superiore locale da parte della 82ª divisione aviotrasportata degli Stati Uniti). Alla fine dell’anno era in mano alla resistenza irachena. Si concluse così la “prima battaglia di Falluja”.

La città fu riconquistata nel novembre 2004, al costo di 95 soldati statunitensi uccisi e 560 feriti. Circa 1.350 ribelli morirono nella “seconda battaglia di Falluja”, oltre a un ampio ma imprecisato numero di civili, perché l’offensiva statunitense impiegò pesanti bombardamenti d’artiglieria e munizioni al fosforo bianco. Novemila delle 39mila abitazioni della città furono distrutte e oltre la metà fu danneggiata.

Anche gli iracheni che si opponevano a Saddam Hussein oggi vorrebbero che non fosse mai stato spodestato

La città non è mai stata ricostruita, ma circa due terzi dei suoi abitanti ci sono ritornati prima del 2007. Nonostante i continui attacchi contro le forze d’occupazione da parte del gruppo che sarebbe diventato lo Stato islamico (Is), nel 2008 gli Stati Uniti hanno riportato Falluja sotto il controllo del governo iracheno. O sarebbe meglio dire sotto l’occupazione del governo iracheno, perché a quel punto il governo di Baghdad, sostenuto dagli Stati Uniti, era quasi interamente sciita, mentre Falluja è una città sunnita.

I ribelli sunniti hanno ripreso il controllo di Falluja nel gennaio 2014, e sei mesi dopo il resto dell’Iraq occidentale è caduto in mano alle truppe dell’Is che non hanno praticamente incontrato resistenza. Si è ripetuto il solito schema: il nuovo esercito messo in piedi dagli Stati Uniti a un costo di 26 miliardi di dollari si è semplicemente sfasciato e disperso.

La “terza battaglia di Falluja” è cominciata nel maggio di quest’anno. Le forze governative irachene (perlopiù sciite, naturalmente), sostenute dalle truppe iraniane e dagli attacchi aerei statunitensi, ci hanno messo quasi sei settimane per riconquistare la città, dove non restavano che poche decine di migliaia di civili. Molti torneranno quando sarà possibile, se non altro perché non hanno altri posti in cui andare, ma buona parte della città è un cumulo di rovine.

La prudenza del rapporto Chilcot

Le altre città irachene sono state danneggiate in maniera più limitata, ma in nessuna di esse si può vivere sicuri. Nell’ultimo attentato esplosivo a Baghdad, il 2 luglio, sono morte almeno 250 persone. Il giorno dopo, quando il premier Haidar al Abadi ha visitato il luogo dell’attentato, è stato cacciato via da una folla che gli ha lanciato pietre, scarpe e insulti. E la situazione non si risolverà presto.

In tredici anni almeno mezzo milione di morti, milioni di rifugiati, povertà e insicurezza generale e un governo incredibilmente corrotto che sta ferocemente resistendo ai tentativi di riforma di Al Abadi. Non stupisce che anche molti degli iracheni che si opponevano al regime di Saddam Hussein oggi vorrebbero che quest’ultimo non fosse mai stato spodestato.

“Saddam non c’è più, e oggi abbiamo mille Saddam”, ha dichiarato Kadhim al Jabbouri in una recente intervista alla Bbc. Jabbouri, famoso per aver preso a martellate una statua del dittatore mentre le truppe statunitensi entravano a Baghdad nel 2003, ha aggiunto: “Le cose erano diverse sotto Saddam. Non lo amavamo, ma era meglio di quelli che ci sono oggi. Non c’era tutta questa corruzione. Si poteva vivere tranquilli”.

Le prudenti considerazioni del rapporto Chilcot minimizzano l’aspetto principale dell’invasione dell’Iraq, cioè il fatto che tutte queste terribili conseguenze fossero decisamente prevedibili. Chiunque conoscesse davvero la situazione politica, etnica e settaria della regione e dell’Iraq in particolare le aveva previste, compresi gli esperti del dipartimento di stato americano e del foreign office britannico.

Lasciamo perdere il fatto che la decisione d’invadere l’Iraq sia stata o meno un crimine di guerra (anche se tale fu, stando al diritto internazionale). Lasciamo stare il fatto che i motivi degli invasori fosse buoni o cattivi (come al solito erano un misto delle due cose). La cosa più evidente è l’assoluta arroganza e ignoranza di chi ha inflitto una simile catastrofe agli iracheni, che sono condannati a vivere nella miseria e nel terrore. Grazie, ragazzi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it