31 marzo 2017 13:07

“La mia amministrazione sta mettendo fine alla guerra al carbone”, ha dichiarato Donald Trump, circondato dal solito capannello di collaboratori e (in questo caso) minatori, mentre apponeva la sua gigantesca firma sull’Energy independence executive order (ordine esecutivo sull’indipendenza energetica). Ma negli Stati Uniti il carbone, come fonte d’energia, sta morendo per motivi che vanno ben oltre i margini d’azione degli ordini esecutivi.

“I minatori stanno tornando”, ha esclamato Trump durante un comizio in Kentucky la scorsa settimana. Ma Robert Murray, fondatore e amministratore delegato di Murray energy, la principale azienda di carbone degli Stati Uniti, gli ha subito rovinato una festa. “Trump farebbe bene a ridimensionare le sue attese”, ha dichiarato. “Non potrà farli tornare”.

L’ultimo ordine esecutivo di Trump non riguarda solo il carbone, naturalmente. È un assalto frontale a tutti i provvedimenti dell’epoca Obama che volevano mettere un freno ai cambiamenti climatici. Ma anche se rallenterà il calo delle emissioni di gas serra negli Stati Uniti, non avrà un grosso impatto sulle emissioni globali.

La Cina mantiene gli impegni di Parigi
Gli Stati Uniti producono solo il 16 per cento delle emissioni globali. Rispetto al 29 per cento della Cina, non è poi una cifra così alta. E la Cina sta mantenendo il suo impegno a effettuare importanti tagli.

A gennaio la Cina ha annullato la costruzione di 104 nuove centrali a carbone e vuole investire 361 miliardi di dollari (pari a metà del bilancio militare degli Stati Uniti) in energie rinnovabili da qui al 2020. Il governo cinese spende così tanto perché è giustamente terrorizzato all’idea degli effetti del riscaldamento globale sull’economia della Cina, e in particolare sulle sue riserve alimentari.

Il carbone è il più inquinante dei combustibili fossili. Ma non è per questo che l’industria energetica gli ha voltato le spalle

Come gli indiani, gli europei e praticamente chiunque altro, i cinesi stanno mantenendo il loro impegno nei confronti degli obiettivi climatici concordati a Parigi nel dicembre 2015, anche se gli Stati Uniti si sono tirati indietro. Il loro futuro dipende dalla capacità di raggiungere questi obiettivi e sanno che la defezione di Washington non cancellerà tutte le possibilità di successo. Dal punto di vista globale, non è quindi un disastro assoluto.

Sarebbe molto più grave se a Pechino non fossero convinti che le emissioni di gas serra statunitensi continueranno a calare nonostante Trump, anche se non quanto sarebbe accaduto con un’amministrazione meno ignorante e compromessa. L’esempio del carbone spiega perché.

I costi insostenibili del carbone
Nel 2009, quando Barack Obama era arrivato alla Casa Bianca, il carbone forniva il 52 per cento dell’elettricità degli Stati Uniti. In soli otto anni è sceso al 33 per cento e il declino ha poco a che fare con il Clean power plan (piano per l’energia pulita) di Obama. Il prezzo del carbone, infatti, è calato in un primo momento per la concorrenza del gas ottenuto dal fracking e successivamente perché anche l’energia solare è diventata meno cara: 411 centrali a carbone hanno già chiuso e sono fallite più di cinquanta aziende dell’estrazione carbonifera.

Metà delle rimanenti 765 grandi centrali a carbone degli Stati Uniti è stata costruita prima del 1972. Dal momento che queste centrali restano in funzione in media 58 anni, la metà sparirà presto, indipendentemente da quel che farà Trump. Nemmeno lui potrà rendere redditizio il costruirne di nuove. Solo il 9 per cento delle centrali a carbone del paese è stato costruito negli ultimi 25 anni.

Il carbone è di gran lunga il più inquinante dei combustibili fossili, perché produce il doppio di anidride carbonica rispetto al gas a parità di energia prodotta. Ma non è per questo che l’industria energetica gli ha voltato le spalle. È il costo per chilowattora dell’elettricità che conta, e il carbone è stato semplicemente scalzato da fonti di energia più economiche.

Anche in India, che tra le grandi economie è la più dipendente dal carbone e ne possiede grandi riserve, i prezzi dell’energia solare sono adesso allo stesso livello. È solo per inerzia che l’India continuerà ad aumentare la produzione d’energia da carbone per alcuni anni, ma i piani del governo non prevedono ulteriori espansioni della capacità derivante dal carbone dopo il 2022. Il re carbone è davvero morto.

La posta in gioco è un po’ più bassa del previsto
Non serve più la buona volontà per fare la cosa giusta per la sicurezza climatica. Basta il buon senso. Dall’efficienza energetica delle auto alla sostituzione delle centrali a carbone con quelle solari o a gas, il risparmio economico va di pari passo con il taglio delle emissioni. L’economia non è il nemico, è l’alleato. E quindi Trump non farà neanche la metà del danno che si teme.

Obama aveva promesso di tagliare, entro il 2025, le emissioni di gas serra negli Stati Uniti di circa il 26 per cento rispetto ai livelli del 2005. Circa metà di questa riduzione sarebbe dovuta avvenire durante il mandato di Trump (2017-2020), quindi diciamo circa il 13 per cento. Gli Stati Uniti producono il 16 per cento delle emissioni globali quindi basta fare i calcoli: il 13 per cento del 16 per cento corrisponde a circa il 2 per cento delle emissioni globali.

Questa sarebbe la posta in gioco nei prossimi quattro anni se la presidenza Trump bloccasse tutti i tagli di gas serra annunciati e su cui Obama fondava le sue previsioni. Ma questo non accadrà. Molti di questi tagli ci saranno comunque, non fosse altro che per motivi economici. Dovendo fare una stima, saranno circa la metà del totale.

Quindi quanti danni può fare Trump alla lotta globale contro i cambiamenti climatici nei prossimi quattro anni? Potrà mantenere le emissioni globali più alte all’incirca dell’1 per cento di quanto sarebbero state se gli Stati Uniti avessero mantenuto le promesse fatte alla conferenza di Parigi. Niente di più.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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