19 maggio 2017 10:15

La campagna elettorale, durata sei settimane, è finita. Il 19 maggio 55 milioni d’iraniani votano al primo turno delle elezioni presidenziali. O meglio, la maggioranza di questi 55 milioni voterà, nonostante il grande scetticismo che circonda le promesse di migliorare l’economia del presidente Hassan Rohani e, di conseguenza, il trattato internazionale volto a smorzare le ambizioni nucleari iraniane e che avrebbe dovuto riportare la prosperità.

Donald Trump (che definisce il trattato “uno dei peggiori mai firmati”) non è l’unico a considerarlo un fallimento. Anche se il principale avversario di Rohani in queste elezioni, il religioso fautore della linea dura Ebrahim Raisi, non rifiuta ufficialmente l’accordo, tutta la sua campagna è incentrata sul fatto che la fine delle sanzioni economiche non ha portato agli iraniani la rapida crescita economica promessa da Rohani.

L’Iran possiede una grande economia, fatta di redditi medi e con un ampio settore industrializzato che però, a causa soprattutto di queste sanzioni, nell’ultimo decennio è rimasta depressa. Le entrate sono stagnanti o sono calate, la disoccupazione giovanile è al 26 per cento e molte persone hanno perso la loro fiducia in Rohani.

La diffidenza delle banche
Due anni fa il 43 per cento degli iraniani esprimeva una “forte approvazione” del “Piano d’azione congiunto globale” (Jcpoa), come viene chiamato l’accordo, al momento della sua firma. Oggi sono solo il 21 per cento. Eppure l’accordo non è cambiato. Il problema di Rohani è che anche lo stato dell’economia non è praticamente cambiato da allora.

I partner occidentali del Jcpoa, i cosiddetti “cinque più uno” (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Germania, Francia e Unione europea) hanno rimosso le sanzioni lentamente, soprattutto a causa della riluttanza di Washington, anche se il governo statunitense ha avuto la prontezza di concedere una deroga quando Boeing voleva firmare un accordo da 16,6 milioni di dollari per la vendita di ottanta velivoli passeggeri all’Iran, lo scorso dicembre.

Raisi sfrutta il disincanto per portare avanti una campagna populista che promette lavoro e dignità

Il principale problema dell’Iran è che le grandi banche internazionali si sono mostrate esitanti nel riavviare i rapporti con l’Iran, nel timore di trovarsi impreparate qualora gli Stati Uniti rinnegassero l’accordo e ripristinassero le sanzioni. L’economia iraniana continua quindi a procedere a singhiozzo, e molte persone che hanno votato per Rohani l’ultima volta hanno dichiarato che stavolta si asterranno.

Ebrahim Raisi sta sfruttando questo disincanto per portare avanti una campagna populista che promette “lavoro e dignità”. Pare che Raisi abbia il sostegno tacito della guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, massima autorità all’interno del particolare sistema misto democratico-teocratico iraniano.

Khamenei non ha espresso pubblicamente il suo sostegno ad alcun candidato in queste elezioni (ci sono anche due candidati alla presidenza meno noti). Si ritiene generalmente, tuttavia, che sostenga Raisi, noto soprattutto per essere stato uno dei quattro giudici islamici che hanno ordinato l’esecuzione di migliaia di prigionieri politici nel 1988.

Di conseguenza, Raisi è sostenuto dal suo bacino elettorale: poveri, religiosi e poco istruiti. Se questi dovessero presentarsi alle urne in massa, mentre l’elettorato più urbanizzato e istruito dovesse esprimere la sua delusione per l’incapacità di Rohani di fare miracoli astenendosi, è assolutamente possibile che Raisi batta il suo avversario e diventi il prossimo presidente.

L’autarchia islamista
Un risultato del genere raffredderebbe le relazioni del paese con l’occidente, ma Raisi afferma che la cosa non lo interessa: secondo lui l’Iran non ha bisogno di aiuti esterni e il suo obiettivo è riportare in auge i valori della rivoluzione islamica del 1979. Ma questo sicuramente non migliorerebbe le prospettive di benessere dell’Iran, né quelle di pace di tutta la regione.

Rohani è tra due fuochi, in queste elezioni. A casa deve fare i conti con la controffensiva dei conservatori che condannano la sua apertura all’occidente e (implicitamente) il suo accordo nucleare. Ma è anche probabile che, il giorno delle elezioni, gli elettori che magari potrebbero sostenerlo rischino di dover ascoltare la retorica antiraniana di Donald Trump, invitato a un vertice dei paesi arabi proprio dall’altra parte del golfo, in Arabia Saudita.

Ma non si tratta solo di Trump. Hillary Clinton, pur avendo tiepidamente sostenuto l’accordo, ha avuto dell’Iran in generale un’opinione altrettanto negativa e Barack Obama ha fatto regolarmente ricorso al fuorviante mantra dell’Iran “principale stato sostenitore del terrorismo”. Come tutti i suoi predecessori, dai tempi di Ronald Reagan.

L’Iran non è peggiore di molti alleati degli Stati Uniti nella regione (e anzi è meglio di altri) per quanto riguarda il trattamento dei suoi cittadini. Non è neppure più propenso di loro a interferire nelle questioni dei suoi vicini. Eppure le amministrazioni statunitensi di entrambi gli schieramenti lo trattano sempre come uno stato canaglia che minaccia più di chiunque altro la pace in Medio Oriente. Perché?

Il motivo è che l’Iran ha sfidato gli Stati Uniti e l’ha spuntata. La rivoluzione iraniana del 1979 ha rovesciato il monarca fantoccio di Washington, lo scià. Come accaduto per la rivoluzione di Castro a Cuba, gli Stati Uniti non hanno mai perdonato questo affronto. E questo nonostante gli iraniani abbiano ormai più o meno perdonato gli Stati Uniti per il golpe sostenuto dalla Cia nel 1953 che distrusse la democrazia iraniana, attribuendo poteri assoluti proprio allo scià.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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