06 luglio 2018 10:03

In una guerra commerciale ben gestita, probabilmente gli Stati Uniti otterrebbero importanti concessioni dalla Cina, perché in fondo i cinesi non vorrebbero partecipare a una disputa del genere con il principale destinatario delle loro esportazioni. La disputa pianificata da Donald Trump comincia il 6 luglio ma gli Stati Uniti non possono vincerla.

All’atto pratico, il 6 luglio entra in vigore il primo blocco di dazi sulle importazioni di beni cinesi negli Stati Uniti, una tassa del 25 per cento su 50 miliardi di dollari (42 miliardi di euro) di prodotti cinesi. Pechino reagirà tassando altrettanti 50 miliardi di dollari di esportazioni statunitensi verso la Cina. Rispetto alle dimensioni dell’economia dei due paesi è una goccia nel mare, ma questo è solo il primo round.

Trump ha già definito “ingiusta” la ritorsione cinese, annunciando che se Pechino introdurrà la nuova tassa, Washington risponderà con un’imposta del 10 per cento su duecento miliardi di dollari (170 miliardi di euro) di prodotti cinesi (poi Trump si è corretto e ha parlato di cento miliardi di dollari, ma chissà cosa farà davvero). Pechino ha promesso di reagire con provvedimenti “corrispondenti per quantità e qualità”.

È l’inizio di un’escalation basata sull’”occhio per occhio, dente per dente”, ed è difficile immaginare come fermare questa reazione a catena. Se Trump è evidentemente prigioniero della sua retorica aggressiva, anche Xi Jinping è intrappolato, per due motivi.

Il primo è che Trump ha già imposto nuovi dazi sostanziali alle importazioni provenienti dai paesi vicini (Canada e Messico) e dall’Unione europea, che hanno risposto introducendo nuove imposte di pari valore sulle esportazioni americane.

Trump non pensa in termini geostrategici, ma i cinesi potrebbero ritenere che sia influenzato da chi ragiona in questi termini

Dunque, anche se probabilmente per la Cina sarebbe più utile non reagire colpo su colpo, Xi sarà costretto a farlo per non apparire più debole di Justin Trudeau.
Secondo il Wall Street Journal, il 21 giugno a Pechino il presidente Xi ha incontrato un gruppo di dirigenti di importanti multinazionali statunitensi ed europee promettendo una reazione ai dazi statunitensi. “In occidente c’è l’idea che se qualcuno ti colpisce devi porgere l’altra guancia”, avrebbe dichiarato Xi. “Nella nostra cultura, rispondiamo con la stessa moneta”.

Il secondo elemento che influenza le decisioni di Xi è il fatto che Pechino sta cominciando a considerare la politica commerciale americana come parte di un tentativo deliberato di arrestare l’ascesa della Cina in quanto grande potenza industriale e tecnologica capace di rivaleggiare alla pari con gli Stati Uniti. E dopo tutto a Washington ci sono molte persone che hanno esattamente questo obiettivo.

Trump non pensa in termini geostrategici, ma i cinesi potrebbero pensare che sia influenzato da chi invece ragiona in questi termini. Se arriveranno a questa conclusione, la loro inclinazione ad accettare una guerra commerciale senza quartiere potrebbe rivelarsi più solida di quanto pensino gli esperti.

Le esportazioni della Cina negli Stati Uniti rappresentano il 40 per cento del totale, mentre solo il 5 per cento delle esportazioni americane raggiunge la Cina. È chiaro che uno scontro frontale sul commercio tra i due paesi penalizzerebbe molto di più i cinesi. Tuttavia il presidente Xi può fronteggiare meglio di Trump la perdita di posti di lavoro e l’aumento dei prezzi, soprattutto perché gli americani più colpiti dalla guerra commerciale sarebbero proprio quelli della “base” politica del presidente.

L’alternativa è che l’economia della Cina, pesantemente indebitata, si riveli più fragile di quanto sembri. In questo caso una guerra commerciale spingerebbe il paese verso una profonda recessione (con conseguenze interne politicamente imprevedibili) trascinando l’intera economia mondiale. Non è certo uno scenario allettante.

Un fattore chiave
C’è un motivo se le guerre commerciali sono passate di moda nella seconda metà del novecento, e non è solo perché il commercio internazionale ha la tendenza a favorire la prosperità in generale. Tra il 1500 e il 1800 le guerre commerciali furono lo strumento principale per fare affari al livello internazionale e le potenze europee passarono metà del tempo a combattersi tra loro.

La prima grande epoca del libero mercato, tra il 1870 e il 1914, è passata alla storia come la “lunga pace”, mezzo secolo senza conflitti armati tra le grandi potenze europee. La pace è stata spazzata via dalla prima guerra mondiale (purtroppo il libero mercato non scongiura del tutto la possibilità di un conflitto), ma è altrettanto vero che le guerre commerciali degli anni trenta hanno aggravato la grande depressione e facilitato l’affermazione del fascismo e lo scoppio del secondo conflitto mondiale.

Poi è arrivata la seconda lunga pace, che dura ormai dal 1945, in cui regna il (più o meno) libero mercato e le grandi potenze non si scontrano mai frontalmente.

Non voglio sostenere che la chiusura voluta da Trump aprirà la strada a nuove guerre tra le grandi potenze. Ci sono altri fattori da considerare, ma Trump potrebbe aver riportato alla luce uno di quelli chiave.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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