25 ottobre 2022 10:38

Chi scrive del conflitto tra le autorità ribelli del Tigrai e il governo centrale dell’Etiopia, o di qualsiasi altra guerra in Africa, dovrebbe sempre precisare fin dal primo paragrafo che l’85 per cento dei cinquantacinque paesi africani vive in pace. L’Africa non è un continente in guerra. Detto questo, è pur vero che quasi tutte le guerre in corso che uccidono più di mille persone al mese avvengono in Africa (l’unica eccezione è l’invasione russa dell’Ucraina), dove vive un essere umano su sei. E anche se il più ampio di questi conflitti presto terminerà, non sta finendo bene.

Il Tigrai sta crollando. Questa provincia ribelle, abitata da sei dei 120 milioni di etiopi, è in lotta da due anni contro Abiy Ahmed, il primo ministro del governo federale di Addis Abeba. A un certo punto le forze tigrine minacciavano perfino di raggiungere la capitale. Ma oggi, per i combattenti del Tigrai, le ostilità stanno giungendo al termine tra carestie, bombardamenti e sconfitte.

I tigrini potrebbero essere definiti gli “spartani” etiopi: contadini tenaci, abituati ai sacrifici, forti di una disciplina e di un senso d’appartenenza etnica che li hanno resi dei temibili avversari. Furono in prima fila nella lunga battaglia per rovesciare il Derg, il violento regime socialista che governò il paese tra il 1974 e il 1991, e in seguito hanno dominato la coalizione che ha guidato l’Etiopia fino al 2018.

Negli ultimi trent’anni l’élite politico-militare tigrina ha prosperato e lo stesso si può dire, in misura minore, per la popolazione tigrina. Questo ha creato un tale risentimento tra gli altri gruppi etnici che quattro anni fa Abiy ha estromesso i tigrini dal potere potendo contare su un ampio sostegno. Ma è stata solo questione di tempo prima che le parti entrassero in conflitto.

I soldati del governo federale se la sono passata male all’inizio, ma sono riusciti a ribaltare la situazione dopo che Abiy ha comprato dei droni militari all’estero. Alla fine, con i numeri, la tecnologia e uno spietato blocco dei generi alimentari che ha ridotto i tigrini alla fame, sono riusciti ad avere la meglio sugli avversari.

Numerosi stati europei si sono fatti la guerra per tre secoli prima che i loro confini si definissero

Abiy ha trovato un utile alleato nell’Eritrea, una feroce dittatura le cui truppe sono entrate nel confinante Tigrai con la sua benedizione (nel 2019 il premier etiope aveva ricevuto il premio Nobel per la pace per aver firmato un trattato di pace con Asmara). La guerra probabilmente finirà presto. Con una vittoria del governo etiope e, naturalmente, altri massacri.

Ma non c’è nulla di particolarmente “africano” in questo conflitto. Ci sono paralleli con la storia del Giappone del cinquecento (il periodo degli stati belligeranti), della Francia del seicento (otto guerre civili a sfondo religioso) e degli Stati Uniti dell’ottocento (la guerra civile, la “conquista” del west e le guerre espansionistiche con Regno Unito, Messico e Spagna). Sono guerre che fanno parte del processo di formazione di uno stato, nel quale vari gruppi religiosi, etnici e linguistici, clan e tribù sono gradualmente spinti a ottenere qualcosa di simile a un’identità comune. È un processo spesso violento, mai completamente terminato, e in molti casi ancora in corso.

Considerato che molti paesi africani sono indipendenti da meno di sessant’anni, forse ci sarebbe da stupirsi non del fatto che ci siano guerre in Africa, ma che tutto sommato sono relativamente poche. Numerosi stati europei – quasi cinquanta in un continente con poco più di metà della popolazione africana – si sono fatti la guerra per tre secoli prima che i loro confini si definissero. Certi lo fanno ancora, soprattutto nell’Europa dell’est.

In realtà c’è una particolarità che contraddistingue le guerre africane: la scarsa attenzione che ricevono. La guerra in Etiopia è molto più sanguinosa di quella in Ucraina eppure è praticamente ignorata dai mezzi d’informazione occidentali e asiatici. Perché? Tedros Adhanom Ghebreyesus, capo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è particolarmente coinvolto in questo conflitto. È tigrino e pensa che il problema sia il razzismo. In una recente dichiarazione ha ipotizzato che la mancanza di impegno al livello globale per fermare la guerra nel Tigrai dipenda dal “colore della pelle”.

Tedros si è chiesto se “il mondo presti la stessa attenzione alle vite dei bianchi e dei neri”, visto che le guerre in corso in Etiopia, Yemen, Afghanistan e Siria hanno raccolto solo una minima parte dell’interesse rivolto alla guerra in Ucraina.

La tesi di Tedros sarebbe più convincente se la maggior parte degli yemeniti, degli afgani e dei siriani non fosse bianca. Ma tutti questi paesi sono musulmani, e guerre che all’apparenza hanno una dimensione religiosa, in realtà svolgono un ruolo determinante nella formazione delle identità nazionali e degli stati. Il resto del mondo presta poca attenzione perché le liquida come l’ennesima guerra tra musulmani.

È un peccato che tanti paesi sembrino condannati ad attraversare una fase di grandi violenze sulla strada verso un futuro post-tribale. Ma, a quanto pare, gli esseri umani funzionano così. In alcuni paesi africani e arabi sta succedendo ora, solo perché l’imperialismo europeo gli ha impedito di farlo prima.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Da sapere
Colloqui in Sudafrica

I rappresentanti del governo etiope e delle forze regionali del Tigrai sono arrivati il 24 ottobre 2022 a Pretoria, in Sudafrica, per i primi colloqui di pace formali, promossi dall’Unione africana, dallo scoppio del conflitto due anni fa. Al momento l’esercito etiope e i suoi alleati, tra cui le truppe eritree, sono in una posizione di forza, avendo recentemente riconquistato importanti città nella regione, comprese Shire e Adua. La situazione sul campo sembra quindi favorire il governo. Gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno facendo pressioni affinché Addis Abeba fermi l’offensiva. La guerra ha causato una crisi umanitaria enorme e una carestia nel Tigrai, dove ci sono milioni di sfollati. Il bilancio dei civili morti è incerto, ma un gruppo di ricercatori dell’università di Gent, in Belgio, stima siano stati almeno 385mila. Reuters, The Observer


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