06 febbraio 2019 16:43

Leggo i giornali, guardo i telegiornali e apprendo che la stragrande maggioranza degli italiani, sondati non si sa come, è contraria alla processabilità del ministro dell’interno Matteo Salvini, sulla quale si esprimerà domani la giunta per le immunità e in seguito l’aula del senato. Percentuali da capogiro: più o meno il 60 per cento dell’elettorato complessivo, più dell’80 per cento dell’elettorato leghista, il 65 per cento di quello dei cinquestelle, la metà di quello di Forza Italia, poco meno di un quarto di quello del Pd, pensano – in sintonia del resto con la maggior parte dei commentatori – che la richiesta dell’autorizzazione a procedere emessa dal tribunale dei ministri di Catania a carico di Salvini sia solo un modo per farlo fuori, punto e basta.

Qualcuno, intervistato dai cronisti d’assalto delle tv, si spinge più in là: “Salvini ha fatto solo quello che noi gli abbiamo chiesto di fare”, dove il “noi” non significa “noi suoi elettori” ma “noi popolo italiano”. La parte per il tutto, esattamente come nella retorica populista del governo gialloverde. Il cerchio si chiude: Salvini sostiene di aver fatto quello che il popolo gli chiede, il popolo sostiene che Salvini ha fatto quello che gli ha dato mandato di fare. In sostanza, un’autorizzazione popolare a delinquere: 177 persone tenute sotto sequestro su una nave per cinque giorni, e usate come ostaggio nella trattativa per la distribuzione dei migranti fra i paesi dell’Unione europea, con l’autorizzazione e la soddisfazione del “popolo”.

Il conflitto che è in corso sulla processabilità o meno del ministro non è un conflitto nuovo nella scena politica italiana: il ventennio berlusconiano ne è stato costantemente costellato e contrassegnato. È vero infatti che, come molti si affannano a puntualizzare, il caso Salvini è diverso dal caso Berlusconi: qui c’è un ministro indagato per un reato commesso nell’esercizio della sua funzione, lì c’era un imprenditore indagato per un reato commesso in conflitto d’interesse con la sua funzione di premier. Ma fatta questa pur saliente distinzione, la questione di fondo resta la stessa: qui e lì c’è un potere di governo che si ritiene al di sopra della legge, non processabile e non punibile perché eletto dal popolo e, in quanto eletto dal popolo, onnipotente e insindacabile, legibus solutus. In altri termini: chi vince le elezioni fa quello che vuole, anche illegalmente.

La prevedibile vittoria del no sarà l’ennesimo strappo ai princìpi dello stato di diritto costituzionale

È la regola numero uno dei populismi contemporanei: scagliare il principio di legittimità contro il principio di legalità, laddove le costituzioni novecentesche si basano precisamente sul loro equilibrio; riaffermare una concezione assoluta della sovranità, laddove le costituzioni nate dopo l’esperienza del nazismo e del fascismo la limitano ancorandola all’osservanza della legge: chi vince le elezioni governa, ma entro la cornice della legge e sotto il controllo della legalità esercitato dalla magistratura.

La prima posta in gioco nel caso Salvini ha dunque a che fare con la concezione della democrazia, della sovranità e della divisione dei poteri. Se, come tutto lascia prevedere, il no all’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro finirà con il prevalere, la torsione populista e sovranista della nostra democrazia ne uscirà rafforzata, e con essa l’idea che il potere esecutivo è gerarchicamente superiore a quello giudiziario, e che chi vince le elezioni è padrone assoluto del campo. È solo ovvio sottolineare che l’espediente proposto dal presidente del consiglio e dai cinquestelle, ovvero la responsabilità collegiale di tutto il governo nella gestione della vicenda Diciotti, non sposta di una virgola il problema. Meno ovvio è aggiungere che l’argomento del primato della politica, avanzato anche in aree intellettuali di sinistra per sostenere la tesi della non procedibilità di Salvini, è del tutto pretestuoso: il primato e l’autonomia della politica, principio sacrosanto, ha molti campi in cui esprimersi, primo fra tutti quello del rapporto con l’economia in cui invece non viene mai fatto valere, ma non è un primato che possa esercitarsi contro la legge.

La seconda posta non è meno consistente. L’aula del senato potrà infatti esprimersi contro l’autorizzazione a procedere solo se valuterà che Salvini “abbia agito per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio di una funzione di governo”. Se cioè accetterà la versione dei fatti fornita dallo stesso Salvini, per cui il sequestro dei 177 migranti era necessario per la difesa dei confini nazionali e per la trattativa con l’Unione europea. Senonché da nessuna parte nella costituzione è previsto, né sottinteso, che esista un interesse dello stato o un preminente interesse pubblico che comporti o consenta la soppressione dell’habeas corpus e della libertà personale, o la messa a rischio delle vite, o l’uso delle persone come ostaggi di una trattativa. Di nuovo, si tratterebbe del tradimento di un caposaldo delle costituzioni postfasciste, scritte apposta per tutelare la vita umana dagli eventuali soprusi di uno stato totalitario.

Quello che è in gioco nel caso Salvini è dunque qualcosa di ben più consistente della durata del governo, cui i cinquestelle sembrano essere pronti a sacrificare la loro nota vocazione giustizialista e forcaiola. La prevedibile vittoria del no sarà l’ennesimo strappo, quanto mai lacerante, ai princìpi dello stato di diritto costituzionale. Unito ad altri due strappi che sono già a uno stadio avanzato di preparazione: la legge sulle autonomie regionali, che manda all’aria il presupposto egualitario dell’unità nazionale e di ciò che resta dello stato sociale, e la proposta di legge dell’M5s sul referendum propositivo, che smantella di fatto la centralità del parlamento nel potere legislativo. In barba alla retorica sovranista, avanza a grandi passi il disfacimento dell’architettura costituzionale e istituzionale del paese.

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