24 settembre 2019 17:42

L’Unione europea ha fatto una montagna di guai con la politica dell’austerity. Ora sappiamo che può farne di ulteriori, e persino peggiori, con la politica della memoria. La quale memoria è cosa di cui i parlamenti, i governi, gli stati e i superstati farebbero bene a non occuparsi, essendo essa un luogo proprio della soggettività, il luogo in cui gli individui, i gruppi, i popoli elaborano il proprio rapporto con la storia. Sede dunque di produzione simbolica e di conflitti simbolici, non di sistemazioni e prescrizioni istituzionali come invece pensa il parlamento di Strasburgo.

Il quale ci ha messo quattordici anni ad approvare (con 535 voti favorevoli, 66 contrari e 52 astensioni) una “risoluzione sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che già quando venne proposta nel lontano 2005 dal conservatore svedese Goran Lindblam il Guardian, giornale non propriamente sovversivo, commentò con il seguente titolo: “Il comunismo è morto, ma non abbastanza. Dietro una battaglia sulla storia il tentativo di provare che non c’è alternativa al nuovo capitalismo globale”. Nel frattempo il comunismo non è resuscitato ma l’Unione europea a sua volta non sta tanto bene, e prova a tamponare la sua crisi di legittimazione riaprendo la caccia al solito fantasma che evidentemente continua ad aggirarsi per l’Europa, e gemellandolo d’ufficio al fantasma del nazifascismo. Che però, a differenza del primo, si è reincarnato in una vasta gamma di esperimenti autoritari sparsi per il continente: e già da qui è chiaro che qualcosa non torna.

Preceduto da 16 “visto” e 13 “considerando”, quasi una barricata di paletti burocratici a protezione dell’enormità della sparata, la risoluzione è un impasto di riscrittura del passato e di comandamenti per il futuro, dove la prima è funzionale ai secondi come sempre accade nell’uso pubblico della storia. Due i cardini della vicenda europea novecentesca su cui ruota l’intero asse del testo: la seconda guerra mondiale vista come “conseguenza immediata del patto Molotov-Ribbentrop e dei suoi protocolli segreti”, e l’equiparazione senza se e senza ma dei “regimi nazisti e comunisti”, sotto la comune categoria del totalitarismo e sotto la comune colpa di avere commesso “omicidi di massa, genocidi e deportazioni”. Da qui la centralità nella storia europea delle vittime dei due totalitarismi, e da qui la necessità, secondo il parlamento di Strasburgo , di una “cultura della memoria condivisa” contro i crimini fascisti e stalinisti, allo scopo di “promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia” provenienti oggi soprattutto da movimenti, formazioni e governi razzisti e xenofobi quando non dichiaratamente neofascisti o, chissà mai domani, neocomunisti. Seguono, a completamento, l’istituzione di due giornate di commemorazione delle vittime e degli oppositori dei regimi totalitari, l’invocazione di processi e risarcimenti perché una dose di giustizialismo non guasta mai, la condanna della diffusione di ideologie naziste, fasciste, staliniste, razziste, antisemite e omofobiche, “l’inquietudine” per l’uso pubblico dei relativi simboli nonché per la permanenza in alcuni stati europei di monumenti commemorativi dei passati regimi – tipo quello ai caduti dell’Armata rossa vicino alla porta di Brandeburgo a Berlino: che ci fa ancora lì?

È inaccettabile che l’Urss risulti corresponsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale e che ne venga cancellato il ruolo decisivo nella sua fine e nella sconfitta del nazismo

Votata quasi all’unanimità anche dai partiti della famiglia socialista europea e passata sotto silenzio nei mezzi d’informazione mainstream, la risoluzione ha scatenato una sollevazione sui social network, cui seguirà forse qualche contestazione a Strasburgo e Bruxelles da parte delle sinistre radicali. Nel mirino c’è soprattutto la disinvolta, ma tutt’altro che innocente o inconsapevole, riscrittura della storia che il parlamento europeo controfirma, legittimando una corrente revisionista che scava da almeno tre o quattro decenni nella coscienza europea e ne violenta, essa sì, la memoria.

Inaccettabile è infatti un’interpretazione decontestualizzata del pur scelleratissimo patto Molotov-Ribbentrop, che tace le pesanti reticenze delle democrazie inglese e francese di fronte alla politica espansionistica di Hitler e le loro responsabilità nel fallimento di una possibile intesa antitedesca con l’Urss. Inaccettabile, ancorché divenuta ormai di uso corrente, è l’equiparazione fra nazismo e comunismo – nonché quella sottostante fra comunismo e stalinismo –, che all’ombra di un uso estensivo e approssimativo della categoria del totalitarismo tace le differenze di sistema, ideologiche, programmatiche, sociali, politiche fra i due regimi. Inaccettabile è infine che all’esito di queste due operazioni l’Urss risulti corresponsabile dello scoppio della seconda guerra mondiale mentre ne viene cancellato il ruolo decisivo nella sua fine e nella sconfitta del nazismo, così come viene cancellato il ruolo dei partiti comunisti occidentali nella resistenza al fascismo. Svarioni da matita blu, sui quali è superfluo insistere se non per chiedersi perché e a quale fine il parlamento europeo ne faccia l’ossatura di una risoluzione ufficiale.

Come il diavolo, la risposta si annida nei dettagli, e nella fattispecie nei “considerando” iniziali, dove meglio risaltano i destinatari, l’obiettivo polemico e il senso politico del testo. Fra i destinatari, la Polonia che più di tutti subì le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop, i paesi baltici che trent’anni fa, nell’estate dell’89, di quel patto celebrarono il cinquantenario commemorandone le vittime con una catena umana da Vilnius a Tallin, e più in generale i paesi dell’Europa centrale e orientale che, “alla luce della loro adesione alla Ue e alla Nato, sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi e hanno dato prova di successo nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico”. L’obiettivo polemico invece è uno solo, la Russia di Putin, rea di “continuare a insabbiare i crimini del regime comunista, e a esaltare il regime totalitario sovietico”, all’interno “della guerra di informazione condotta contro l’Europa democratica allo scopo di dividerla”.

È chiaro a questo punto a che cosa servano le forzature della storia e le prescrizioni della memoria. Si tratta, quindici anni dopo l’allargamento dell’Unione europea a est, di ribadire e raddoppiare gli errori di una costruzione europea già contrassegnata ab origine dalla dannazione dell’esperimento sovietico, dalla glorificazione del binomio fra democrazia (neo)liberale e capitalismo come unico orizzonte politico possibile e pensabile, e dal “ritorno in famiglia” dei paesi dell’Europa centro-orientale condizionato all’accettazione di questi presupposti.

Questi errori erano già patenti quindici anni fa, quando la risoluzione in questione venne concepita mentre l’allargamento a est era in corso. Ma tanto più è perverso ripeterli e raddoppiarli ora che il tempo ha dimostrato quanto essi abbiano pesato nel portare l’Unione nella crisi politica ed economica in cui versa. All’origine delle attuali minacce alla democrazia che tanto sembrano preoccupare il parlamento di Strasburgo e che provengono in primo luogo dai paesi “accolti” dall’Unione europea non ci sono infatti i residui del totalitarismo sovietico ma le premesse sbagliate e le promesse mancate della democrazia neoliberale, che hanno aperto la strada alle sue contorsioni illiberali di oggi, ivi compresi i rigurgiti neofascisti, xenofobici e razzisti di fronte ai quali Strasburgo invoca “resilienza”.

Del tutto illusorio dunque è cercare di frenare queste contorsioni e il fantasma neofascista che esse riportano a galla agitando il fantasma di un comunismo di pari o superiore pericolosità. Viceversa, proprio l’equiparazione fra i due totalitarismi, che la risoluzione di Strasburgo adotta dal revisionismo storico che a sua volta ha accompagnato la costruzione europea, è una causa non secondaria della attuale deriva infelice dell’idea e della prassi democratica. Se si cancella la differenza fra i due totalitarismi, se si dimentica il contributo decisivo dell’Unione sovietica e dei partiti comunisti alla sconfitta del nazismo e del fascismo, non si capisce neanche la differenza fra la qualità delle democrazie del dopoguerra e le democrazie senza qualità del dopo-89. Non dall’equivalenza ma dalla asimmetria fra i due totalitarismi dipende la piegatura, socialdemocratica o neoliberale quando non illiberale, che la democrazia ha preso e può prendere in Europa e in tutto l’occidente.

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