31 ottobre 2015 11:05

Probabilmente, per molti l’8 ottobre 2015 non è stata una giornata particolare. Le solite notizie di devastazione e corruzione dal mondo, la solita metropolitana di Roma in panne, le stesse nuvole in cielo. Ma per la comunità di afroitaliane e afroitaliani e di afroamici è stata una giornata speciale. Su Rai 1 ha debuttato l’attrice Tezetà Abraham nella fiction È arrivata la felicità.

Cosa c’era di speciale? Tezetà è una giovane donna nata a Gibuti e arrivata a Roma all’età di cinque anni. Etiope di origine, romana per costituzione, Tezetà è di fatto il riassunto di due continenti che lei si porta allegramente sulle spalle. Ha un sorriso che illumina, e che a molti ricorda quello di Julia Roberts, e una presenza scenica che le ha permesso per molti anni di fare la modella.

Tezetà è bella, molto bella. Lo star system, in tempi anche recenti, ne avrebbe fatto un sol boccone di una come lei. L’avrebbe relegata in ruoli marginali e stereotipati. Sarebbe stata scritturata solo per fare la prostituta, la badante o nella migliore delle ipotesi la disperata morta di fame.

Invece oggi una ragazza come Tezetà riesce, nonostante la cecità di sceneggiature ancora poco aderenti alla realtà, a farsi valere. Insieme a colleghe come Ester Elisha e Gamey Guilavogui ha saputo imporre una soggettività nuova ai ruoli proposti. Ha portato dentro lo schermo la forza e l’entusiasmo delle seconde generazioni, italiani di fatto trattati da giornalisti e politica come stranieri nel proprio paese. Per questo c’era tanta attesa di vederla all’opera in È arrivata la felicità. Il ruolo di Tezetà Abraham è una novità assoluta nell’ambito delle fiction televisive italiane.

Tezetà è lo specchio di tante ragazze afroitaliane che lavorano, studiano, amano in questa Italia sempre più meticcia

Tezetà interpreta Francesca, una donna che lavora in una ludoteca e che non è molto fortunata con gli uomini. Una sorta di Bridget Jones afro, con dei maglioni multicolori da fare invidia alla vera Bridget.

Poi il romanesco di Tezetà, unito alla sua voce ruvida, “spacca” come si direbbe in gergo giovanile. Spacca davvero, e la lega idealmente alla tradizione del miglior cinema italiano, quello dove Cinecittà si trasformava in periferia, in racconto, in vita. Insieme ad attori famosi come Claudia Pandolfi e Claudio Santamaria, Tezetà non ha sfigurato, anzi è riuscita a dare a una fiction recitata sopra le righe, quasi isterica a tratti, una nota di naturalità popolare che di fatto ha riportato una storia confusa a una quotidianità di quartiere. Con le sue breve apparizioni, Tezetà ha dato forza all’impianto della fiction.

La Francesca di Tezetà poi ha un altro merito, quello di essere lo specchio di tante ragazze afroitaliane che lavorano, studiano, amano in questa Italia sempre più meticcia che non si vede ancora come tale. L’Italia racconta poco, soprattutto in televisione, il cambiamento che l’ha attraversata dagli anni settanta.

Non solo non ci sono afroitaliani in televisione (anche il cinema soffre della stessa malattia), ma spesso non ci sono nemmeno ebrei, musulmani o rom. O altrimenti interpretano ruoli di tragedia, disperazione, spauracchio o crimine. Ecco perché il sorriso (e i maglioni) di Tezetà Abraham sono stati così rivoluzionari.

Certo una piccola rivoluzione di cui si sono accorti in pochi, ma pur sempre una rivoluzione. Tezetà con la sua Francesca ha dimostrato che un altro racconto è possibile anche in Italia e che tramite un mezzo antico come la televisione, mezzo antico ancora molto al centro delle nostre vite, si possono raccontare storie di inclusione, di meticciato quotidiano, di società multiculturale.

In Italia questa presa di coscienza è solo all’inizio. Ma non è così per quanto riguarda il cinema e la televisione. C’è una lunga frequentazione tra Africa e Italia che risale addirittura al periodo coloniale. Film come Sentinelle di bronzo (1937) di Romano Marcellini, con Doris Duranti nel ruolo della somala Dahabo, avevano comparse somale ed eritree. E lo stesso vale per altri lungometraggi come Squadrone bianco, Luciano Serra pilota, Giarabub. E poi come dimenticare le varie Ines Pellegrini, Zeudy Araya, Lola Falana che hanno riempito gli schermi della penisola negli anni sessanta e settanta?

La difficoltà di essere minoranza

Per avere una traccia di questa storia complessa e a tratti anche contraddittoria è nato da poco un blog in lingua inglese ma assolutamente made in Italy dal nome evocativo, cinemaafrodiscendente.

I promotori hanno voluto creare un luogo virtuale dove il racconto di questi intrecci cinematografici non andasse perduto. Un archivio virtuale dove fosse tracciata l’esperienza di attori, registi, tecnici, africani di nascita o di origine coinvolti nell’industria cinematografica italiana.

Il sito non ha come obiettivo solo la conservazione della memoria, ma anche il dialogo dell’esperienza italiana con altre in giro per il mondo.

Essere minoranza, infatti, non è facile da nessuna parte. Il sistema della rappresentazione è di fatto attorniato da muri, fossati, impedimenti. Il modello di riferimento è sempre quello del maschio, bianco, eterosessuale, protestante o cattolico. Chi ne è al di fuori (donne di più di cinquant’anni, afrodiscendenti, comunità lgbt) deve lottare per essere rappresentato ed essere rappresentato bene.

L’attrice Viola Davies lo sa bene. Davies è stata la prima afroamericana a vincere un Emmy e lo ha vinto quest’anno come attrice protagonista di una serie tv drammatica per il suo ruolo in How to get away with murder, dove ha interpretato magnificamente l’avvocata Annalise Keating.

Viola Davis agli Emmy, Los Angeles, il 20 settembre 2015. (Chris Pizzello, Invision/Ap/Ansa)

Il suo discorso agli Emmy è stato di una potenza inaudita. “L’unica cosa che separa le donne nere da chiunque altro”, ha detto Davies “sono le opportunità. Non si può vincere un Emmy per ruoli che semplicemente non esistono. Quindi questo premio è per tutti gli sceneggiatori, per le persone meravigliose che sono Ben Sherwood, Paul Lee, Peter Nowalk, Shonda Rhimes. Persone che hanno ridefinito cosa significa essere bella, sexy, protagonista e nera”.

E protagonisti, sexy e neri sono anche Lázaro Ramos e Taís Araújo, una coppia molto conosciuta in Brasile e che è additata dai giornali di fofocas (pettegolezzi) come il Jay-Z e la Beyoncé brasiliani.

Sono belli, affascinanti, pieni di ironia e con molta voglia di mettersi in gioco. Stanno facendo furore con una novela (una roba molto seria in Brasile. Il paese si ferma per guardare la soap del momento) intitolata Mr. Brau.

Nella prima puntata la ricca coppia fa un bagno notturno nella piscina della sua villa. Una vicina di casa bianca vedendo due neri in piscina pensa: “Oddio sono arrivati i ladri”. Chiama la polizia e i due vengono quasi arrestati. Nessuno all’inizio crede che sono loro, proprio loro, i proprietari della villa.

Le facce dei poliziotti sono eloquenti, perplesse e quasi angosciate. Davvero dei neri possono essere ricchi? Davvero possono essere altoborghesi? Davvero possono essere protagonisti di una storia d’amore? Mr. Brau decostruisce gli stereotipi seppellendoli con una risata, però dal retrogusto amaro. Il Brasile non è abituato. Per tutti è la terra del multiculturalismo e del meticciato.

Servirebbero programmi contro discriminazioni, odio razziale e stereotipi. Ma anche fiction che possano contribuire alla lotta

Ma la linea del colore – che lo storico, teorico politico, romanziere, sociologo Du Bois considerava il problema del novecento – attraversa (e spesso spezza) i corpi dei brasiliani. Il razzismo esiste. E gli afrodiscendenti sono sempre stati sottorappresentati e stereotipati.

Inoltre nella società brasiliana i neri (ma anche gli indios) sono stati spinti a “sbiancarsi” o a odiare il loro colore. Essere neri, ancora oggi, in Brasile significa avere meno opportunità. In un incontro pubblico, che si è svolto a Roma alla libreria Giufà, lo scrittore brasiliano di origine veneta Luiz Ruffato ha denunciato l’ipocrisia della cosiddetta società postrazziale brasiliana, sottolineando che il razzismo c’è e sta anche aumentando.

In Brasile quasi ogni giorno c’è un linciaggio e le vittime sono quasi sempre afrodiscendenti o appartenenti alla comunità lgbt. Omofobia e razzismo in Brasile vanno a braccetto. Lo stesso grido d’allarme l’ha lanciato non molto tempo fa anche il cantante scrittore e poeta Chico Buarque de Hollanda che ha conosciuto da vicino la bestia del razzismo, di cui è sempre stato un fiero oppositore.

Il razzismo è entrato nella sua vita quando la figlia ha sposato il musicista Carlinhos Brown che in Italia è conosciuto soprattutto per il disco Tribalista inciso insieme a Marisa Monte e Arnaldo Antunes. La coppia, oggi separata, all’epoca del matrimonio è stata costretta a lasciare la casa in un condominio della classe media a Gávea, a Rio de Janeiro, perché il figlio, nipote di Chico, subiva delle aggressioni da parte dei condomini.

Ecco perché nonostante la leggerezza una soap come Mr. Brau è di fatto rivoluzionaria. In un paese grande come il Brasile una parte di società non ha potuto specchiarsi in nessuna storia e in nessun colore. Servirebbero, e non solo in Brasile, programmi che mirino a lottare contro discriminazioni, odio razziale e stereotipi. Programmi sociali e scolastici. Ma anche fiction che possano contribuire alla lotta.

Le fiction, anche se create per la televisione, rimbalzano sui social media, creano miti, danno origine a mode, producono modelli e a volte riescono pure a sorprenderci.

In Gran Bretagna per esempio sono tutti impazziti per Nadiya Hussain. Nadiya è una casalinga di trent’anni, mamma di tre figli e, fino a pochi mesi fa, una perfetta sconosciuta.

Nadiya Hussain a Londra, l’8 ottobre 2015. (Splash News/Corbis/Contrasto)

Di origine bangladese, oggi è tra le donne più amate del Regno Unito, il rotocalco Hello le ha da poco dedicato la copertina. Nadiya Hussain spopola, come la regina e come J.K.Rowling, la creatrice di Harry Potter. È stata fotografata con Nicole Kidman e i suoi fan adorano le sue mille espressioni.

Nadiya è musulmana, si veste sobriamente e indossa veli di vari colori che cambia a seconda delle occasioni. Ha reso popolare Luton, la sua città, piuttosto anonima finora. E tutto grazie alla sua passione di cucinare torte. Nadiya, infatti, ha vinto il concorso di cucina televisivo The great British bake off e con la sua simpatia ha conquistato un paese intero.

Certo c’è chi ha provato a sminuire la sua vittoria dicendo che era tutto un tentativo della Bbc di far digerire agli inglesi la “torta” del politicamente corretto. Mentre altri si sono scagliati contro il suo velo.

Amanda Platell, editorialista del Daily Mail, è arrivata a dire che una semifinalista britannica avrebbe avuto più possibilità di vincere solo se avesse sostituito il suo carosello di cioccolato con una grossa moschea di cioccolato.

Lo sguardo del pubblico, in Italia come nel Regno Unito, in Brasile o in Francia sta cambiando. È uno sguardo anch’esso multiculturale

Ma a parte alcune voci isolate, quello di Nadiya è un successo clamoroso. Il politicamente corretto alla fine c’entra poco. Sono state la sua spontaneità, la sua autoironia, la sua simpatia a farle guadagnare l’affetto dei britannici.

Il suo account Twitter @BegumNadiya è seguitissimo. E tutti pendono dalle sue labbra per capire quale torta psichedelica inventerà o che trucchi userà per esaltare la sua bellezza. Nadiya è bella, ma non si prende molto sul serio, e ha un volto che non ha paura di esprimere quello che sente. Questo è arrivato subito al pubblico.

Nadiya di fatto è un fenomeno virale. E questo ci dice una cosa importante sulle nostre società sempre più multiculturali. Lo sguardo del pubblico, in Italia come nel Regno Unito, in Brasile o in Francia sta cambiando. È uno sguardo anch’esso multiculturale. Davanti alla televisione o davanti allo schermo di un computer non c’è più solo quel maschio bianco eterosessuale modello di ogni programma o fiction del passato, ma ci sono donne (di ogni età), persone di varie religioni (ma anche atee), nazionalità tra le più disparate, orientamenti sessuali diversi, sensibilità tra le più varie.

E a queste soggettività prima ridotte al silenzio deve pensare oggi chi scrive, pensa, produce programmi o film. Se ne stanno accorgendo anche nel campo della moda.

Non è un caso che una catena come H&M abbia scelto come donna di copertina Mariah Idrissi, una giovane londinese di origine pachistana e marocchina che indossa il velo islamico dall’età di 17 anni. Le grandi catene di abbigliamento, oggi, propongono qualunque tipo di vestiario, dai leggings attillati agli abiti che nascondono le forme, per motivi di taglia o di credo religioso.

Fioccano, per fare un esempio, siti per la cura dei capelli afro (basti pensare all’italiano Afro italian nappy girls, consultato ogni giorno da migliaia di ragazze in tutta la penisola). Quel mondo un tempo silenzioso ha preso il telecomando (e forse la vita) in mano e vuole essere rappresentato come si deve. Gli sceneggiatori sono avvertiti.

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