22 novembre 2016 16:05

Il rancore modella come cera la città.

Questo ho pensato quando ho letto che qualcuno aveva sfregiato, spezzandone la zanna, l’elefantino di piazza della Minerva, a Roma, l’elefantino di Gian Lorenzo Bernini.

Non si capisce se l’elefante sia stato colpito in pieno viso da una pallonata o se qualcuno, probabilmente ubriaco, abbia usato le sue zanne come un’altalena. Forse entrambe le cose, chissà.

O forse la zanna ha ceduto per il logorio delle tante oscenità subite in precedenza.

Lo hanno subito restaurato. Magnifico lavoro. Sta di fatto però che quella zanna spezzata ha simboleggiato, più di qualsiasi altra cosa, la crisi della capitale italiana.

Roma è sempre più sola e indolente. I romani sono preoccupati. La spazzatura invade i respiri, i trasporti sono sempre più sporadici e fatiscenti, l’aggressività è diffusa e capillare. Ma il vero problema è la non accoglienza, questa incapacità di Roma di ascoltare l’altro. Qualcuno prova a lottare contro questo sistema sempre più inumano. I volontari del Baobab e i medici di Medu, per esempio, con le loro sole forze suppliscono a quello che le istituzioni non fanno più. Ed ecco che migranti provenienti dalla Somalia, dall’Eritrea, dalla Nigeria, dalla Siria trovano grazie ai volontari un pasto, un sorriso e una tenda provvisoria per superare le notti umide della capitale. Ma invece di essere supportati, premiati, accolti dalle istituzioni, i volontari (come i migranti) vengono sgomberati un giorno sì e l’altro pure.

È un elefante piccolo, un po’ grassottello, bardato come una vecchia diva di Bollywood

Lo straniero non è persona gradita. E anche chi lo aiuta non è gradito.

La città mette ai margini. E forse, facendo così, mette ai margini se stessa. Guardo l’elefante e mi chiedo quanti sappiano la sua storia.

Anche l’elefante è uno straniero.

Sì, viene anche lui da lontano. Anche lui, in un certo senso, ha fatto un viaggio, faticoso, doloroso.

Ogni volta che lo vedo penso all’oceano Indiano. È un elefante piccolo, un po’ grassottello, bardato come una vecchia diva di Bollywood, si vede lontano un miglio che profuma di mango e zenzero fresco. Bernini, che lo ha fatto nascere, questo probabilmente lo sapeva bene. E anche i romani. Infatti lo consideravano più un porcellino che un elefante. Erano ironicamente irriverenti nei suoi confronti.

Dicono che Bernini, a cui dobbiamo tanta della bellezza romana, abbia pensato a un elefantino dopo averlo visto su una stampa tratta dall’Hypnerotomachia Poliphili, un libro che è stato un vero e proprio best seller ai tempi dell’artista. Sulla copertina del manoscritto c’era un pachiderma che reggeva un obelisco sormontato da una palla.

In realtà nell’elefante della Minerva non c’è solo l’eco di quella copertina antica.

C’è anche la suggestione di una doppia presenza in carne, ossa e proboscide. Due elefanti sbarcati letteralmente tra i sampietrini di Roma, uno nel cinquecento e l’altro nel seicento.

Il primo elefante era albino e molto piccolo. Veniva da Ceylon, l’attuale Sri Lanka, e papa Leone X lo aveva avuto in dono dal re del Portogallo Manuel I di Avis “l’avventuroso” nel 1514. Era tipico dell’epoca regalarsi animali tra regnanti. Era un segno del potere che, si sa, è sempre dispotico. Un dolore che sovrani di ogni colore infliggevano a una fauna esausta, che anche all’epoca era minacciata come adesso. D’altronde gli antichi romani avevano fatto scuola. Per i loro giochi non badavano a spese e non importava se tutto finiva in una strage.

Basta affacciarsi al Circo Massimo ancora oggi e tendere bene l’orecchio per sentire l’eco delle urla strazianti di una delle più grosse stragi di elefanti avvenute in una città. Per glorificare se stesso, Pompeo aveva organizzato dei giochi. Una delle attrazioni doveva essere costituita dai getuli, una popolazione del Nordafrica che in quell’occasione avrebbe ucciso dei pachidermi con i suoi lunghi giavellotti. I romani amavano veder scorrere il sangue. Ma gli elefanti non si fecero ammazzare facilmente. Urlarono, scalciarono, distrussero le gradinate e alla fine in ginocchio piansero per la loro vita così orribilmente straziata. Un pianto assoluto, devastante. Nessuno dei presenti riuscì a restare indifferente a quel dolore. I romani, così abituati al sangue e agli omicidi, cominciarono a piangere anche loro insieme agli elefanti. E maledissero Pompeo in questa vita e in quella che lo aspettava nell’oltretomba. Tutti a Roma sapevano che in fondo Giulio Cesare era stato mandato dai fantasmi degli elefanti per regolare i conti con Pompeo.

Un prigioniero di lusso
Il piccolo elefante albino ha un’altra storia. Forse meno cruenta, ma di certo non meno dolorosa. Una volta a Roma fu battezzato con un nome cartaginese: Annone, il nome di un generale di Annibale. E fece faville. Tutti lo adoravano, soprattutto il papa. Si dice che l’elefante si inginocchiò davanti a lui, come un damerino di corte, e si dice che in quella occasione si divertì a innaffiare gli alabardieri e le guardie svizzere. L’elefante aveva già capito chi comandava e visto che era un prigioniero, di lusso ma pur sempre prigioniero, cercò di firmare subito un patto di non belligeranza con chi lo aveva incatenato. Annone a Roma divenne una star. In realtà lo era già prima di mettere piede nella città pontificia. Il suo viaggio, cominciato in Portogallo, proseguito in Spagna e poi in terra italiana, fece registrare scene di autentica follia collettiva. Era un delirio ovunque passasse. Anche perché il piccolo Annone non era solo. La processione che lo seguiva era composta da bizzarre, almeno per l’epoca, creature. C’erano un pappagallo, una pantera nera, un cavallo originario delle valli della Persia e poi una serie di animali dalle grandi piume multicolori che nessuno aveva mai visto in Europa. José Saramago, nel suo bel libro Il viaggio dell’elefante, scriverà di una processione molto simile. Nella finzione romanzesca dell’autore portoghese l’elefante è diretto a Vienna e durante il viaggio anche lì succede di tutto e di più. Chissà se Saramago si è ispirato un po’ al nostro Annone.

Su Annone ha scritto un libro ben documentato Silvio Bedini, storico e professore emerito dello Smithsonian institution, morto a Washighton nel 2007. The pope’s elephant, così si intitola il volume, è un vero viaggio. Bedini restituisce le atmosfere, i deliri, le paure, la meraviglia della Roma cinquecentesca verso questo ospite particolare.

Il primo giorno dopo il suo arrivo l’elefante era elegantissimo. Tutto avvolto di sete, broccati, pietre preziose. Il re del Portogallo con questa messinscena voleva ingraziarsi il papa perché, nonostante la scoperta dell’America, ancora aveva bisogno della rotta dell’est per mettere le mani sul lucroso mercato delle spezie. Annone era il cavallo di Troia per penetrare nel cuore del papa. L’operazione riuscì in pieno: l’elefante fu un ambasciatore perfetto e il re del Portogallo ebbe grazie a lui l’appoggio dello stato pontificio per una penetrazione più massiccia a est. Un affare coloniale, come ne vediamo anche oggi. Non più spezie, ma petrolio. Non più spezie, ma diamanti. Non più spezie, ma uranio. Nei pochi anni del suo soggiorno romano Annone divertì semplici cittadini e altolocati aristocratici. Ma poi il clima umido della città lo uccise, un colpo al cuore, un infarto. Ma non fu solo quello, Annone morì di saudade, di nostalgia, per la sua terra da cui un potere coloniale lo aveva strappato violentemente.

Bisognerebbe creare degli anticorpi culturali. Insegnare che è proprio questa arte che abbiamo intorno a renderci umani

L’altro elefante arrivò a Roma un secolo e mezzo dopo Annone. Niente processioni, niente broccati, niente svolazzi. Di questo elefantino del seicento non sappiamo nemmeno il nome, sappiamo che era femmina e che il suo padrone la faceva esibire a pagamento. La pubblicità dell’epoca diceva che era capace di fare 36 giochi diversi, però solo se si sganciava il denaro pattuito per questo lusso. Annone camminava libero solo nei giardini vaticani, ma almeno non era costretto a prostituirsi. Invece l’elefantina del seicento si doveva prostituire ogni giorno, per clienti diversi e curiosi di vederla mentre si rendeva ridicola.

Probabilmente Bernini vide dal vivo questa povera elefantina. Di Annone, invece, vide le tracce artistiche. I disegni a matita rossa di Giulio Romano, oggi a Oxford, o il battente di Giovanni di Verona (si dice su disegno autentico di Raffaello) in una delle porte della stanza della segnatura in Vaticano.

L’elefante Annone aveva lasciato anche traccia in due fontane, quella al centro del sontuoso giardino all’italiana del parco dei mostri di Bomarzo e quella a villa Madama. Annone si fa vedere pure in una metopa sotto la loggia del palazzo Baldassini, sempre a Roma, e si favoleggia ancora di un dipinto perduto di Raffaello, in cui Annone era al centro di una scena abbastanza popolata. Chissà, forse Bernini –ma chi può saperlo se non lui o i suoi studiosi – aveva anche letto la commedia satirica di Pietro Aretino dal titolo Le ultime volontà e testamento di Annone, l’elefante.

Suggestioni, tracce, ma la verità è che non sappiamo veramente cosa ispirò la sua nascita.

Chissà se chi si appende alle sue zanne sa tutte le cose che racchiude questo piccolo capolavoro del Bernini. Chissà se ha notato che ha le terga rivolte in modo irriverente verso la chiesa. Chissà se ha intuito i dissapori tra l’artista e i frati domenicani committenti del monumento.

Ma nella Roma attuale, bellezza e storia sono inghiottite dal vuoto.

Se no come spiegarsi che dopo quella zanna spezzata le dichiarazioni istituzionali parlassero solo di “sicurezza”? Qualcuno ha perfino suggerito di coprire il monumento con una gabbia di ferro.

Che senso ha? Non voglio che mettano in gabbia l’elefantino.

Bisognerebbe creare degli anticorpi culturali invece. Insegnare che è proprio questa arte che abbiamo intorno a renderci umani. Questa bellezza non scontata, fragile, che dovremmo custodire, amare.

Ma Roma non si ama più. Roma ormai è una città recintata, dove ogni marginalità è guardata con sospetto.

I quartieri vengono gentrificati, occupati militarmente dalla movida, dal lusso posticcio che sfilaccia i tessuti popolari e riempie le strade di locali radical chic troppo alla moda, di luoghi vuoti che non creano socialità.

Succede a Testaccio, al Pigneto, a Monteverde, a Monti, a Trastevere.

Succede soprattutto al centro, sempre più vuoto, sempre più una Disneyland per soli turisti.

La città è piena di ferite, di spazzatura, di parassiti, di rancore.

Ed è lo stesso rancore che porta a non accogliere i migranti o a sfregiare un monumento antico. Ed è questo rancore che Roma deve sconfiggere per ritornare a essere se stessa.

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