03 febbraio 2017 18:15

Mesi fa ho ricevuto una mail da un’università americana che mi invitava negli Stati Uniti per due settimane e mi assegnava una borsa di studio per scrittori. Per giorni ho preparato il viaggio. Poi è arrivato Donald Trump. E dopo di lui il muslim ban.

La situazione al momento è caotica. I cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen) non possono entrare negli Stati Uniti d’America. Il muslim ban colpisce i rifugiati con regolare visto, i possessori di green card e le persone con doppia cittadinanza. Quindi iraniani, somali, sudanesi, eccetera, ma pure tedeschi iraniani, sudanesi britannici o, come nel mio caso, italiani somali. A tutti noi la frontiera americana sbatte la porta in faccia.

A parte l’Iran, gli altri paesi inclusi nel provvedimento sono tra i più poveri della terra. Pensiamo al mio paese di origine, la Somalia: 27 anni di guerra civile, in cui l’occidente e i paesi del Golfo hanno venduto armi a Mogadiscio. Per non parlare dell’ingerenza nella politica interna. Le ultime elezioni parlamentari sono state esemplificative in questo senso. Tutti i candidati avevano dietro qualche potenza o superpotenza che sganciava denaro per piazzare i propri uomini nella cabina di comando.

I voti (le elezioni non erano a suffragio universale, i parlamentari sono stati eletti da un gruppo di grandi elettori) costavano dai 30mila dollari fino a 50mila. Sono state elezioni fallimentari, segnate da un sistema di corruzione in cui è stato coinvolto tanto l’oriente quanto l’occidente. Tutto questo succedeva mentre il paese viveva una delle siccità più gravi degli ultimi anni e dove la popolazione giovanile, piagata dalla disoccupazione (il sistema favorisce solo i figli delle élite) non ha altra speranza che sfidare la sorte e partire per fare il tahrib, il viaggio della migrazione, da Mogadiscio a Lampedusa, attraverso il Sahara.

Una vigliaccheria
Prendersela con un paese come la Somalia è un segno di vigliaccheria. Perché è palese che non si può difendere, e che non può difendere i suoi cittadini. La politica, spesso corrotta, è troppo debole, e le persone veramente bisognose.

Dal muslim ban sono stati esclusi quei paesi che con gli Stati Uniti, e in particolare con il presidente Trump, hanno affari in corso. Per esempio l’Arabia Saudita, per esempio l’Egitto.

Molti hanno visto in questo provvedimento non solo un attacco ai musulmani, ma più in generale un attacco alla povertà. Il peccato da scontare è il proprio ruolo marginale nel mondo. Centinaia di migliaia di persone hanno protestato negli aeroporti delle principali città contro quella che è subita apparsa come una legge razziale ingiusta che aumenta le diseguaglianze.

La mia situazione è ovviamente molto meno grave di quella dei rifugiati a cui è negato il sogno di una vita sicura o di quella dei possessori di green card che non sono potuti tornare a casa loro. Ma anche se meno grave, il bando di Trump mi ha colpito. Per giorni ho setacciato il web in cerca di testimonianze che mi aiutassero a capire quello che poteva succedermi. E più leggevo più mi angosciavo. L’articolo che mi ha buttato giù definitivamente era quello in cui raccontavano di un gruppo di somali canadesi che dovevano tornare a casa, in Canada, e non potevano prendere nessun volo che facesse scalo negli Stati Uniti a causa del muslim ban. Un delirio.

In uno stanzino
D’accordo con l’università ho rimandato a ottobre il viaggio previsto per aprile, per vedere se il tempo sarà galantuomo con me e con tutti quelli colpiti dal bando. Se con il tempo gli Stati Uniti rinsaviranno. E per evitare di essere chiusa in uno stanzino come una criminale. È dura essere chiusi in uno stanzino, pensando che la tua unica colpa è essere te. Mi è già successo.

Trump ai tempi era solo un tycoon, molto lontano dalla politica. Ma il mondo già trattava chi aveva una faccia troppo africana, troppo mediorientale, troppo del sud del mondo, con i guanti di ferro.

A 16 anni, l’età del mio primo stanzino aeroportuale, ho capito che alla frontiera il tuo corpo diventa altro. Non sei più tu, il tuo nome e il tuo cognome non ti appartengono, e la tua storia fatta di diaspore e attraversamenti è sospetta di per sé.

Alla frontiera non sei mai creduto. Sei sempre un altro. Uno pronto a fregare il sistema

Mio padre mi aveva fatto un regalo. Un bel biglietto per gli Stati Uniti e il Canada, e poi ritorno in Italia, tutto da sola. In quei paesi vivevano i miei fratelli (ho fratelli e sorelle dappertutto, per non parlare dei cugini: si chiama diaspora). Ricordo che dopo essere stata negli Stati Uniti mi preparavo ad andare in Canada. Non sapevo nulla di quel paese e l’idea mi eccitava. Ma non avevo preventivato quello che mi sarebbe successo. Era l’epoca in cui molti somali chiedevano lo status di rifugiato al Canada, la guerra era già scoppiata e i controlli alla frontiera erano serrati. Molta gente chiedeva asilo già all’aeroporto, si lanciava direttamente tra le braccia della polizia di frontiera. Io naturalmente no. Ero in vacanza. Un po’ come Troisi che se ne va al nord in Ricomincio da tre: nessuno gli crede perché i napoletani emigrano, non viaggiano. Lo stesso valeva per i somali, nessuno pensava che una ragazza di origine somala potesse andare in vacanza. Il risultato è stato uno stanzino.

Avevo 16 anni e un inglese scolastico. Chiamarono un uomo che parlava italiano e che, ricordo, mi trattò molto male. Ricordo l’interrogatorio sui ministri: chi è il primo ministro italiano, mi chiese. Io lo sapevo per fortuna, ero una nerd secchiona. Molti della mia età, in Italia, si sarebbero sbagliati, ma a me toccava sapere la risposta giusta, se no erano guai. E poi ricordo che mi chiese i nomi di tutti i ministri. La stanza era davvero spartana. Pareti bianche, sedie marroni, tavolo standard, un vaso con fiori finti in un angolo. Non avevo esperienza, se no avrei chiesto l’intervento dell’ambasciata. All’epoca mi venne in mente solo il numero di telefono di mio fratello. Lo chiamarono e dopo 45 minuti di interrogatorio fui lasciata andare. Avevo pianto. Mi sentivo così umiliata e triste.

Ora che ci penso potevo denunciarli, ma ero troppo piccola per avere un pensiero così elaborato. Se questo mi era successo in Canada, terra di accoglienza, cosa mi poteva succedere nel resto del mondo?

E così mi sono abituata a viaggiare con tessere della biblioteca, patente, tessera arci, tessera Cgil, oltre a carta di identità e passaporto. Tutto quello che serve per rafforzare la mia italianità. Alla frontiera non sei mai creduto. Sei sempre un altro. Uno pronto a fregare il sistema. Le tue buone azioni, la tua vita irreprensibile non contano niente. Contano i tuoi occhi, il colore della tua pelle, la tua religione e l’appartenenza a un popolo sospetto. Con il tempo ho imparato che il connubio Italia e Somalia era esplosivo.

Una volta a Parigi, quando ancora non c’era Schengen, mi hanno chiesto: “Davvero ci sono neri italiani?”. Alla frontiera devi imparare a raccontare bene la tua storia e anche quella dei tuoi paesi. Ed ecco che spesso mi tocca sciorinare la storia del colonialismo italiano a guardie di frontiera esterrefatte e anche un po’ curiose.

Migrante clandestina
Ma nonostante le precauzioni, di incidenti me ne sono successi anche dopo il Canada, il peggiore senza dubbio in Spagna. Ho fatto l’Erasmus a Valencia, una delle più belle esperienze della mia vita. L’aeroporto lì è andato liscio come l’olio. Nessun intoppo. I guai sono arrivati dopo dieci giorni. La banca voleva un documento che avrei dovuto fare in questura, e con la mia coinquilina italiana (a cui avevano chiesto lo stesso documento) pensavamo che fosse una pratica burocratica come tante. Solo che non immaginavamo che la carta d’identità italiana aveva subìto un cambio di grafica. Io avevo ancora quella con la grafica vecchia. Il passaporto l’avevo lasciato a casa. Ormai ero entrata nel paese e non mi piaceva girare con il passaporto, ho sempre paura di perderlo. Sta di fatto che, dopo essere passata allo sportello, fui fatta accomodare di nuovo in sala d’attesa e poi davanti a tutti prelevata da quattro poliziotti piuttosto bellicosi. Venne prelevata pure la mia amica.

I primi minuti brancolavo nel buio. Poi mi dissero con un tono sprezzante: lei è una migrante clandestina. E per circa 40 minuti andarono avanti dicendomi cose terribili. La mia coinquilina, che non era abituata a quel trattamento (suppongo che l’abbiano prelevata come complice) pianse subito. Io no. Erano passati sei anni dall’esperienza canadese e paradossalmente quella vicenda mi aveva rafforzato. All’inizio provai a spiegare la faccenda delle carte d’identità. Ma loro non mi capivano o non mi volevano capire. Allora, dopo tante spiegazioni, pronunciai la parola magica: “Voglio chiamare la mia ambasciata, ne ho diritto”. Ripetei ambasciata fino allo sfinimento. E vidi qualcuno di loro vacillare. Non era l’atteggiamento che si aspettavano da una migrante clandestina senza tutele. Non so chi si accorse dell’errore. Dopo 50 minuti di umiliazione arrivarono le loro scuse: durarono dieci minuti.

Una manifestazione contro il muslim ban, a Chicago, il 1 febbraio 2017. (Scott Olson, Getty Images)

Ancora una volta però feci l’errore di non denunciarli. Forse avevo paura di non essere creduta, in fondo era la loro parola contro la mia. Ogni volta penso anche che questo succede a tante persone più fragili di me. Succede ogni giorno. Persone senza tutele che non possono dire “chiamate la mia ambasciata”, persone che dovremmo aiutare e che invece subiscono l’impensabile. Quello che è successo a me è nulla rispetto ai soprusi che vivono migranti e rifugiati a ogni frontiera.

I nostri corpi non sono più nostri.

E anche chi crede di avere dei diritti, le persone come me che viaggiano con un passaporto forte (quello italiano è in quarta fascia, classificato molto bene tra i documenti di viaggio mondiali), scoprono che il razzismo, che fa già a pezzi chi ha bisogno, come i rifugiati, fa di noi persone sospese che rischiano in ogni momento di trasformarsi in esseri mostruosi.

Il muslim ban fa emergere tutte le contraddizioni dell’occidente

Dopo il Canada e la Spagna, mi è successo sempre qualcosa. Ormai mi sono abituata ad avere a che fare con la frontiera. Di recente in Inghilterra ho dovuto spiegare all’addetto che mi controllava il passaporto che in Africa la gente parla anche di libri. Le cose sono andate così. Sul passaporto ho un grosso visto di un paese che non esiste: il Somaliland. Dico che non esiste perché nessuno stato, tranne l’Etiopia, ha accettato la sua secessione dalla Somalia. Quando sono stata lì, invitata all’Hargeysa international bookfair, un festival letterario, ho chiesto agli agenti di frontiera di non timbrarmi il passaporto con il loro visto. Ma lo hanno fatto lo stesso. E da allora il mio passaporto è diventato infiammabile. Da una parte il visto americano e dall’altra questo strano timbro d’entrata di un paese non riconosciuto dalla comunità internazionale.

Quella volta, l’addetto alla frontiera, biondo e con gli occhi chiari, ha guardato quel visto con l’aria di saperla lunga: “Ah, Somalia”, ha quasi urlato. Poi guardandomi intensamente negli occhi mi ha chiesto: “Conosce Al Shabaab. Mi dica, ha avuto contatti con loro?”. La domanda era bizzarra, meritava una risposta ironica, ma non mi andava di finire in un altro stanzino. Gli ho detto: “Certo che li conosco. Sono terroristi. È come dire Stato islamico. Sono piuttosto famosi, sa?”, e anche se mi ero ripromessa di non essere ironica lo sono stata. Poi la conversazione ha preso una piega surreale. Mi ha chiesto: “Ma davvero leggono libri in Africa?”. E anche: “Ma perchè lei scrive libri? A che serve?”. Mi ha tenuto venti minuti in piedi quel giovanotto, in bilico tra fuori e dentro.

Ora che hanno messo gli aggeggi elettronici agli aeroporti, lo confesso, vado direttamente da quelli. Il robot, ho scoperto, non discrimina. Ha tutti i dati e mi fa passare sempre, nello stesso tempo degli altri. Forse un giorno anche i robot discrimineranno. Su questo la fantascienza ci avverte da anni. Ma ecco, per ora è meglio.

Il mondo è mescolato ma Trump, e non solo lui, non lo vuole capire

Gloria Anzaldúa, nel suo libro Borderlands/LaFrontera, ha scritto in tempi non sospetti della frontiera tra Stati Uniti e Messico. Ha detto che è una “herida abierta”, una ferita aperta, dove il terzo mondo si scontra con il primo e sanguina. E ha aggiunto che la frontiera la lacera.

In un certo senso ci lacera sempre, ma ora con il muslim ban ci lacera di più. Perché fa emergere tutte le contraddizioni dell’occidente e la complessità negata delle nostre vite. Veniamo appiattiti a un’unica appartenenza religiosa, come se la religione fosse vissuta da tutti nello stesso modo. Laici, atei, religiosi, fondamentalisti tutti nello stesso calderone, come se nell’islam non ci fosse pluralismo. E come se uno stato coincidesse con una religione. E le minoranze? Cancellate con un colpo di spugna. E le diaspore? È davvero tanto strano pensarsi italiani e somali, iraniani e francesi, sudanesi e tedeschi? Il mondo è mescolato, ma Trump (e non solo lui) non lo vuole capire.

Consiglierei la visione di un vecchio film con Totò e Fernandel, La legge è legge. Nel film Fernandel è un doganiere inflessibile. Un sacerdote della frontiera. Ma poi si scopre che non è francese perchè nato nella cucina di un ristorante, che si trova esattamente dove passa la linea di frontiera. Allora è italiano? Nemmeno. Sta di fatto che nessuno lo vuole. Né la Francia né l’Italia. C’è una scena emblematica dove viene rimpallato come un sacco di patate dalle autorità francesi e da quelle italiane.

“Vorrei sapere se esisto o non esisto”, chiede a un certo punto, stanco e disperato.
“Di fronte alla legge, no”, è la risposta dell’ordine costituito.

E allora Fernandel, in uno scatto di orgoglio, comincia un monologo sulla frontiera tra i più interessanti della storia del cinema: “Allora, se ho capito bene, per voi l’esistenza di un uomo non conta affatto, conta solo la sua carta d’identità. Ho capito bene, il mondo va avanti con la legge, le carte, i regolamenti. Molto presto ci vorrà un permesso per vivere, debitamente timbrato, per poter respirare”. Fernandel si chiede se in questo mondo c’è ancora spazio per l’uomo, per la convivenza.

A volte ho la sensazione che, pur essendo passati secoli, siamo ancora alla mentalità che animava Sparta quando chiedeva agli stranieri di compiere dei sacrifici per poter essere ammessi nei suoi territori.

Ma se a Sparta bastava un’offerta, ora ci viene chiesto in cambio la nostra vita o la nostra essenza.

Pensiamo ai tanti che muoiono nel Mediterraneo inseguendo un sogno. Abbiamo messo in mano alle mafie un viaggio che dovrebbe essere legale, abbiamo creato un apartheid che permette ad alcuni di spostarsi e ad altri no. In questa situazione già precaria il muslim ban è una mina vagante, un precedente pericoloso. Ora sta accadendo a sette paesi a maggioranza musulmana, domani potrebbe succedere a chiunque altro. Quando i corpi vengono messi in discussione, è un passo indietro per tutta l’umanità.

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