17 giugno 2009 00:00

All’ex lager di Mauthausen non c’è una fermata d’autobus. Dalla città austriaca di Linz si prende il pullman fino alla città di Mauthausen. Si scende ai piedi di un’altura, e da lì al campo vero e proprio bisogna camminare per due chilometri. Quando ci sono andato ho pensato di aver sbagliato strada. Poi però il campo è comparso all’orizzonte, con le solite torri di guardia e le lunghe mura.

Una delle stranezze del campo di Mauthausen è la bellissima posizione in cui si trova. Silenzio, una campagna splendida, prati verdi. Ma è anche un posto dove centinaia di migliaia di persone sono morte in modo atroce e dove anche chi è sopravvissuto ha sofferto per anni. Nella cittadina di Mauthausen puoi cenare sulle rive del Danubio: sei all’ombra del lager, eppure hai l’impressione che non esista.

Ogni anno, nella domenica più vicina all’anniversario della liberazione di quel campo di sterminio – dove l’esercito statunitense entrò il 5 maggio 1945 – migliaia di persone arrivano a Mauthausen da tutto il mondo. Molti paesi mandano una delegazione ufficiale. Quest’anno, sotto il sole cocente, le delegazioni hanno sfilato lentamente e deposto corone di fiori. Quella italiana era la più folta e la più colorata di tutte, con gli stendardi dei comuni di Bolzano, Lerici, La Spezia, Bologna e di molte altre città. È una cerimonia solenne e lunga, eppure nella vicina Linz, capitale europea della cultura, non ho trovato nessuna indicazione dell’evento, che si svolgeva ad appena dieci chilometri. La città vive all’ombra del campo, ma evidentemente molti preferirebbero ignorare quello che avvenne a Mauthausen tra il 1938 e il 1945.

Muri della memoria

Oggi l’ex lager è diviso in tre zone. Una ha ancora l’aspetto di un campo di concentramento: torrette e filo spinato. Ci sono anche le baracche, le camere a gas, il muro della tortura e i forni dove un tempo venivano bruciati i corpi. Dappertutto targhe e cippi commemorativi, che aumentano ogni anno. Si sta discutendo sull’opportunità di restaurare questo sito e su come farlo. Il museo creato in quest’area del campo è interamente in tedesco. Nella seconda zona ci sono molti memoriali nazionali, che rispecchiano i cambiamenti della storia. Alcuni sono realizzati nello stile ormai superato del realismo socialista. Altri sono nazionali e unitari, semplici e potenti; altri frammentati e forti anche loro. Alcuni sono di paesi che non esistono più, come la Ddr.

Il muro della memoria italiano è ricoperto di piccole targhe e iscrizioni commemorative, come a voler sottolineare il fatto che la memoria italiana di questo campo è locale e individuale anziché nazionale. Negli anni sono venuti in visita a Mauthausen molti parenti e molti sopravvissuti, che hanno lasciato qui le loro testimonianze commemorative. Questa mescolanza crea uno straordinario mosaico della memoria che si è evoluto nel corso del tempo. Procedendo alle spalle dell’area monumentale si raggiunge la parte più nota del campo, la ragione per cui fu costruito in questa località: la cava di granito.

Qui i prigionieri erano costretti a trasportare enormi blocchi di granito su per la “scala della morte”. Morirono in molti, di sfinimento, di percosse, o semplicemente gettati dentro la cava, oggi occupata da un lago. I gradini sono stati modificati per agevolare la salita, ma sono ancora molto ripidi, e salirli è duro anche senza portare sulla schiena un blocco di granito.

Una guida preziosa

La mia guida a Mauthausen è stata Carla Giacomozzi, che dirige l’archivio storico di Bolzano e visita i lager di tutto il mondo. Da tempo Giacomozzi si dedica a raccogliere ricordi e memorie sul campo che i nazisti aprirono a Bolzano durante l’occupazione: molte delle persone che furono internate lì vennero poi deportate proprio a Mauthausen. Tutto quello che rimane del campo di Bolzano è un muro, diventato a sua volta un luogo della memoria, dove si tengono regolarmente cerimonie commemorative. Quest’anno il vicesindaco di Bolzano, Oswald Ellecosta, ha sostenuto che la sua città non fu “liberata” il 25 aprile 1945, bensì nel settembre del 1943, quando arrivarono i nazisti.

E così il 25 aprile di quest’anno Ellecosta si è rifiutato di partecipare alle cerimonie organizzate presso il muro dell’ex campo di Bolzano. Ha dichiarato: “Se proprio dovessimo parlare di liberazione dal punto di vista dei sudtirolesi, allora dovremmo pensare al 9 settembre 1943: quando i tedeschi arrivarono, li accolsero con i fiori”.

E così, una città come Bolzano continua ancor oggi a essere divisa dalle memorie della guerra. A Mauthausen, i tre vigili urbani bolzanesi che accompagnavano Giacomozzi hanno marciato orgogliosi a fianco degli altri italiani venuti a commemorare le vittime dei nazisti.

Però a Bolzano c’è chi la pensa diversamente. Intanto, Carla Giacomozzi prosegue la sua straordinaria opera di memoria. Ha accompagnato un gruppo di studenti di un liceo scientifico in visita ai luoghi dello sterminio nei dintorni di Linz. I ragazzi hanno ascoltato con attenzione. Le loro domande hanno dimostrato una maturità di cui non c’è traccia nel modo strumentale e meschino con cui certi politici cercano di sfruttare il passato.

*Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 800, 19 giugno 2009*

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