05 ottobre 2012 18:36

Oggi, proprio mentre stavo ragionando su come iniziare questo post, Facebook ha annunciato di aver superato un miliardo di utenti. La notizia è arrivata il giorno dopo la presentazione del decimo rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione, che rivela che il 62 per cento degli italiani ormai naviga su internet (un aumento del 9 per cento rispetto al 2011). Di questi utenti, esattamente due terzi (66 per cento) sono iscritti a Facebook (l’anno scorso erano il 49 per cento).

Io, giornalista inglese residente in Italia dal 1984, sono stato fra gli

early adopters di internet. Il mio primo modem, quando abitavo a Roma nel 1992, era della Us robotics e viaggiava a 9,600 bit al secondo. All’epoca ci mettevi meno tempo a mandare un articolo via fax (c’entra poco, ma vi ricordate il rumore di connessione di quei primi modem, quello che si chiamava “the storm”? Era una musica celestiale).

Insomma ho vent’anni di esperienza come internauta, e sono ormai fin troppo connesso alla rete: ho due computer, ho la banda larga con due Airport per estendere il wi-fi in tutta la casa, ho uno smartphone sempre connesso, anche quando sono all’estero.

E nonostante tutto questo, non sono stato fra gli early adopters né di Facebook né di Twitter. E anche adesso che li uso, non mi entusiasmano più di tanto. L’invito a partecipare a un panel al festival di Internazionale a Ferrara sul tema “Come Twitter e i social media hanno cambiato il giornalismo” mi ha fatto riflettere sui motivi di questa mia resistenza ai social media.

Ma prima di mettermi a ragionare, volevo fare un ulteriore sforzo: da quasi una settimana sto seguendo assiduamente Facebook e Twitter (che mi scorre in continuazione in una sidebar che ho installato sul mio browser) per cercare di capire se avevo perso qualcosa.

Ecco le mie considerazioni. Ovvero perché alla domanda “Twitter e il social media hanno cambiato il tuo modo di fare giornalismo?”, devo rispondere “quasi per niente”. Ma prima dovrei spendere due parole sul tipo di giornalismo che faccio.

Rispetto a molti miei colleghi, il mio lavoro è piuttosto vario. Collaboro per almeno dieci testate diverse in tre paesi (Gran Bretagna, Stati Uniti, Danimarca) divise tra tre settori: viaggi e turismo, cinema, architettura d’interni e storia dell’arredo. Poi su Internazionale scrivo questo blog settimanale a ruota libera nella mia veste di italieno.

Dunque, Facebook e Twitter mi aiutano? Cominciamo con due osservazioni un po’ banali. Facebook serve essenzialmente per tenersi in contatto con quelli che conosci o che vorresti conoscere. Può essere usato in altri modi e per altri scopi, ma la sua anima è questa. Twitter serve per diffondere informazioni e allo stesso tempo per promuovere la propria autorevolezza come fonte di tali informazioni. In teoria, allora, Twitter dovrebbe essere più utile per un giornalista.

Ed è vero che tra i due Facebook è quello più facile, per me, da archiviare. Se sono alla ricerca di informazioni per scrivere un articolo, lo uso pochissimo. È vero che, scorrendo giù per i post degli “amici” (che non sono tutti amici) mi capita di imbattermi in qualcosa che mi fa ridere, o arrabbiare, o pensare. Come l’indagine di Errori di stampa postato da una mia amica (vera) su quanto (poco) guadagnano i giornalisti italiani free lance.

E devo ammettere che per certi scopi molto specifici, un appello lanciato su Facebook può essere molto utile per far convergere più cervelli su una questione. Come ha fatto il mio amico (vero) Mark Cousins, storico del cinema, quando il mensile Sight & Sound gli ha chiesto di scrivere un saggio sull’importanza del volto umano nel cinema. Ha semplicemente chiesto agli amici su Facebook di suggerire degli spunti cinematografici. E sono arrivati a decine.

Dunque da me Facebook prende il voto di 2 su 10 come strumento giornalistico, su una scala in cui Google conta, diciamo, 8 su 10. Facebook può tornare utile forse una volta ogni dieci giorni, soprattutto se frequenti dei gruppi attinenti al tuo campo di interesse, ma per lo più serve per distrarsi dal lavoro, non per facilitarlo.

E siamo a Twitter. Di Twitter, a parte il nome, mi danno fastidio due elementi. Il fatto che per quanto sei bravo a scegliere bene e a filtrare quelli che segui, il 90 per cento dei tweet è poco più che pubblicità spazzatura, e un altro 9,9 per cento sono notizie che a me personalmente, nel mio lavoro, non portano da nessuna parte. Oppure non sono notizie per niente.

Ieri mi è arrivato il tweet seguente da un twitterfeed di news italiano in lingua inglese che seguo: “Some of the population of Italy’s mainly german-speaking northern South Tyrol area is not too happy to be italian”. Ma veramente? Da allora attendo con ansia il tweet che mi dice che il papa è cattolico.

L’altro elemento di Twitter che mi irrita è il fatto che sotto la pretesa di presentare pillole di informazione per persone busy busy busy, si nasconde quello che in inglese si chiama un pissing contest (una gara a chi ce l’ha più lungo, si potrebbe tradurre). Ho più follower di te. Sforno cento tweet al giorno. Sono bravo a fare i twoosh (i tweet di esattamente 140 caratteri). I tweet portano i miei follower al mio blog, il blog alla mia pagina Facebook, la mia pagina Facebook al mio account Twitter, come nella scala di Escher. E via discorrendo.

Poi (e mi accorgo che con questo sono tre fastidi, non due) Twitter costringe un giornalista polivalente a scegliere solo una delle sue identità lavorative. Ho scelto quella del corrispondente di viaggio specializzato sull’Italia per i tweet che faccio da @leesitaly, il mio account principale, perché so che se mi mettessi e twittare di cinema o di storia dell’arredo deluderei i miei followers, per i quali sono quel tizio che ogni tanto (molto raramente, a dire il vero) passa qualche notizia su mostre, trasporti, alberghi, ristoranti, aperture, chiusure, iniziative nel campo del turismo in Italia. Sicuramente potrei essere “a million different people from one day to the next”, come cantavano i Verve, aprendo un account per ogni mio avatar professionale – ma chi ha il tempo?

Non nego che Twitter, come Facebook, possa essere uno strumento utile per diffondere le breaking news, il che è un elemento (ma non, a mio parere, un elemento determinante) del citizen journalism, che la sua velocità e capacità di reazione può aiutare quelli che lottano contro i regimi repressivi (ammesso che quel regime non abbia represso anche internet).

Forse, a dire il vero, il mio problema con Twitter è un problema con il concetto di push media in generale. Cioè che solo se scegli i follower giusti, i twitterfeed giusti, le configurazioni giuste, ti possono cascare in grembo esattamente le notizie che ti servono.

A me è sempre piaciuto andare a cercare le notizie. Poi, una volta trovate, non le voglio necessariamente condividere subito con tutti i colleghi. Sennò che giornalismo è? Che gusto c’è?

Dunque, il mio voto a Twitter come strumento giornalistico è sempre di 2 su 10. Però, se continuo ad accumulare follower come ho fatto in questi giorni di improvvisa twitteraggine dopo mesi di letargo, forse cambierò idea. Sono un uomo dopottutto, non resisto ad un pissing contest degno del nome.

E non è solo il numero di followers che mi rende fiero: è anche la loro qualità. Proprio oggi mi è arrivata una mail per informarmi che tra i miei nuovi followers ci sono Krista Stright e Melodi Phyfe, la prima specializzata in ics anal sex, la seconda in cum shot pics. Welcome to my world, girls. Just call me Mr Wiggles.

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