A metà percorso, un festival di buon livello ci ha regalato tre buoni film che parlano di famiglie imperfette, come tutte le migliori famiglie.
Famiglia hippy
La reazione dei critici a Le meraviglie di Alice Rohrwacher, unico film italiano in concorso, è stata mediamente positiva, [anche tra la stampa non italiana][1]. Meno male, perché la stampa italiana sembrava più interessata a riportare i consensi della stampa internazionale anziché rischiare un giudizio diretto.
A me è piaciuto molto. È uno di quei rari film che riescono a conciliare grazia e durezza, magia e realismo. La storia è ambientata nella bassa senese, in un periodo non specificato, anzi volutamente sfocato, ma che dovrebbe essere intorno a metà degli anni ottanta. Padre tedesco (il ballerino belga Sam Louwyck), madre italiana (Alba, la sorella della regista), sui 35 anni: si sono conosciuti quando erano due studenti che volevano cambiare il mondo, adesso stanno cercando di mandare avanti una fattoria fatiscente nella campagna toscana, con molta fatica. Hanno quattro figlie, di cui la più grande, la serissima Gelso (Gelsomina, ma il personaggio felliniano c’entra poco), fa da madre alle altre tre.
L’attività principale è l’apicoltura. L’organizzazione svizzera delle api contrasta con quella di una casa umana sregolata, in cui si dorme su dei materassi buttati per terra, in quel che sembra un continuo gioco delle poltrone notturno. Il mondo intorno a questo nido hippy è pieno di minacce, dai cacciatori contro i quali il padre grida maledizioni in tedesco, agli altri agricoltori della zona, che spruzzano un pesticida che uccide le api. Ma le sei femmine della famiglia (c’è anche un’amica tedesca dei genitori) devono convivere anche con una mina vagante interna: il padre, un uomo arrabbiato e sempre pronto a esplodere: anche se non è cattivo la sua è una furia animalesca.
Perfino il miele - simbolo di dolcezza - viene vissuto come un’incombenza. Un secchio in cui il miele cola dal tino diventa il simbolo amaro della tirannia paterna: va cambiato a intervalli regolari prima che il miele trabocchi.
Le meraviglie racconta anche della campagna che sta cambiando, delle sue tradizioni che vanno perdute o sono ridotte a folklore. Questo filone è riassunto in una trasmissione televisiva, il Paese delle meraviglie, in cui Monica Bellucci fa la madrina di un triste concorso a premi per prodotti agroalimentari, che attinge alle tradizioni etrusche e le ricicla in stile peplum. Ma Gelso e le sue sorelle vedono magia dove noi vediamo solo farsa. Ricco e complesso come un nido d’api, Le meraviglie è una favola originale dei nostri giorni.
Famiglia Ikea
È quella di Turist, il più bel film che ho visto finora nella selezione parallela Un certain regard. Anzi, una pellicola che non avrebbe sfigurato in concorso. Il regista, Ruben Östlund, prende una famiglia svedese da catalogo Ikea - madre e padre della porta accanto (solo un po’ più belli), due bambini biondi, un maschio e una femmina - e la manda a fare una settimana bianca nelle Alpi francesi.
Tutto bene, finché una valanga “controllata” sfugge di mano e sembra che stia per finire contro la terrazza di un ristorante sulle piste dove stanno pranzando. Alla fine tutto bene: il muro bianco era solo la polvere sollevata dalla slavina della neve e, meno di un minuto dopo la grande paura, ecco di nuovo tutti a tavola. Solo che nel fuggi fuggi generale il padre era scappato (senza dimenticarsi il suo iPhone), mentre la madre era rimasta a proteggere i due bambini.
Ma il tradimento del padre - che lui nega, insistendo che per lui i fatti erano andati diversamente - apre una piccola falla fra i due coniugi, che con il passare delle ore e dei giorni, diventa un crepaccio. Lo svilupparsi del dramma, che ha risvolti comici, è fatto in modo maestrale (impagabile il tentativo di difesa del miglior amico del padre: “Forse pensavi che scappando, avresti potuto tornare dopo per disseppelirli?”).
È un film destinato a sollevare molte discussioni tra le coppie: tu te la daresti a gambe in una situazione del genere, caro?
Famiglia Hollywood Babylon
Il nuovo film di David Cronenberg deve molto allo sceneggiatore Bruce Wagner, figura singolare che unisce un’assidua frequentazione dei circoli sciamanici che girano intorno a Carlos Castaneda con il lavoro di scrittore di romanzi amari sulla fabbrica dei sogni di Hollywood. I due influssi, misticismo e satira, confluiscono in questo film bizzarro, gustoso, sconcio, gotico, divertente, sicuramente l’opera più “lynchiana” che Cronenberg abbia firmato.
Al centro c’è una famiglia tipica, almeno per Hollywood: lui, John Cusack, è un terapista new age che ha un suo show televisivo e molti clienti famosi, tra cui un’attrice mostruosamente cattiva, ma anche impaurita dal passare degli anni, interpretata con gusto da Julianne Moore. Il figlio del terapista new age, Benjie (il giovane e bravo Evan Bird), è un ragazzo viziato che già a tredici anni è di ritorno da un centro di recupero per abuso di alcol e droghe. Benjie sta guadagnando trecentomila dollari a settimana, grazie anche alle abilità imprenditoriali della madre ambiziosa. La sua vita, e quella dell’intera famiglia, viene sconvolta dal ritorno della sorella Agatha (Mia Wasikowska) dalla Florida, una ragazza apparentemente dolce, ricoperta da ustioni in tutto il corpo dopo un incidente di qualche anno prima, quando faceva da babysitter al fratello minore.
Un film in cui si ride su Madre Teresa, il dalai lama e il linfoma non hodgkin non è certo un prodotto Disney, eppure Maps to the stars raggiunge perfino un certo pathos nel ritratto di due figli rovinati dalla celebrity culture in seno al quale sono cresciuti.
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