11 febbraio 2015 11:09

A poco più di metà del guado, il 65° Festival internazionale del cinema di Berlino si sta rivelando inaspettatamente ricco di scoperte. Tra domenica sera e martedì mattina sono passati tre dei quattro film più belli in concorso finora (il quarto è 45 years di Andrew Haigh, a cui ho già accennato).

Stranamente, due sono cileni. Il primo è il documentario El botón de nacár (Il bottone di perla) di Patricio Guzmán, un excursus poetico ma anche pungente sull’acqua, la Patagonia, il genocidio della popolazione indigena della Tierra del Fuego e i desaparecidos di Pinochet. Il secondo è il dramma viscerale di Pablo Larraín su una casa di riposo per preti pedofili, El club. L’altro film memorabile che ho visto nell’enorme sala (1.600 posti) del Berlinale Palast a Potsdamer Platz è Pod electricheskimi oblakami (Sotto le nuvole elettriche) di Alexey German Jr, che dipinge in un affresco malinconico e satirico, fatto di sette capitoli intrecciati, l’anima malata della Russia contemporanea.

Voglio tornare più in là su questi tre film, perché sono tutti dei titoli che meriterebbero dei post a parte. Speriamo che qualche distributore coraggioso li prenda per l’Italia.

Ora, invece, spenderò due parole sull’ultimo Terrence Malick, Knight of cups.

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Come Tree of life e To the wonder ha diviso i critici (Indiewire ha pubblicato qua un riassunto utile delle contrastanti recensioni angloamericane). In breve, il film è un lungo montaggio di frammenti di un discorso amoroso (per citare Barthes) ma anche esistenziale, una Grande bellezza malickiana sulla vita di un personaggio-tipo, un uomo ricco e arrogante, interpretato da Christian Bale. Lavora a Hollywood (c’è chi ha capito che fa l’attore, ma il pressbook dice che è sceneggiatore) ed è un don Giovanni inquieto; nel corso del film ha rapporti con una serie di bellissime donne (Cate Blanchett, Natalie Portman, Freida Pinto, Imogen Poots), ma non sembra trarne molta soddisfazione: lo vediamo quasi sempre angosciato.

Parla pochissimo con gli altri personaggi, ma con noi si esprime di continuo in un borbottio fuori campo, pronunciando delle frasi del tipo: “Vedi le palme, ti dicono che ogni cosa è possibile. Potresti ricominciare da capo”. Ogni tanto cammina sconsolato per le strade di Los Angeles, guarda i senzatetto con aria preoccupata. Incontra un fratello arrabbiato, un padre vecchio e sciupato, un Antonio Banderas che interpreta una specie di Jep Gambardella di Las Vegas durante una festa al Caesar’s Palace. Forse il film è il sogno di una vita: verso la fine lo sveglia l’ultima ragazza della serie, ma la vita reale, dopo, somiglia in tutto al sogno di prima.

Il direttore della fotografia, spalla di Malick, Emmanuel Lubezki, ci regala come sempre dei momenti di rara bellezza. E in un certo senso questo è un film più leggibile e lineare degli ultimi due. Ma proprio a causa di questa leggibilità narrativa, rivela in modo più nitido la banalità delle basi su cui il film è costruito. La visione spirituale con cui il regista-dio cerca di redimere la vita di un uomo senza qualità è un cocktail fatto miscelando ingredienti come la filosofia new age, il cattolicesimo, le carte dei tarocchi che danno il titolo al film e la sua divisione in capitoli (L’eremita, La torre ecc.), il buddismo, Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan e chi più ne ha più ne metta. È come guardare la versione animata della camera da letto di uno studente, tappezzata di manifesti ispirazionali, copie di I ching e di Siddharta, diari pieni di aforismi pseudoprofondi.

Stasera mi tocca vedere Cinquanta sfumature di grigio. Sarà una tortura, o ci prenderò gusto, proprio come la protagonista del film? Vi farò sapere.

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