13 giugno 2016 14:02

A dieci giorni dal referendum che potrebbe decretare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, il risultato è sempre più in bilico. Anzi, stando agli ultimi sondaggi, il fronte dell’uscita sembra avere un piccolo vantaggio.

Come siamo arrivati a questo punto? Com’è possibile che i miei concittadini siano così delusi dal progetto Europa – nel quale sono coinvolti da più di quarant’anni – da essere disposti anche ad accettare il caos finanziario e la flessione salariale che molto probabilmente seguirebbero, almeno nel medio termine? Non sono solo io a pensarlo: in un sondaggio di cento economisti internazionali condotto dal Financial Times a gennaio, solo l’8 per cento credeva che l’economia britannica sarebbe uscita più forte dalla scissione, contro il 76 per cento che prevedeva un peggioramento.

I britannici sembrano così delusi da essere pronti anche a gettare al vento uno status speciale difeso con le unghie e con i denti da tutti i primi ministri britannici degli ultimi decenni, da Margaret Thatcher a John Major, Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron. Uno status che molti altri stati membri ci invidiano e che ci permette di stare dentro l’Europa ma con una moneta propria e con un rimborso di più della metà dei contributi versati annualmente a Bruxelles.

La matassa delle intenzioni di voto

Il perché forse va cercato in un’analisi più precisa delle intenzioni di voto per il referendum del 23 giugno espresse nei vari sondaggi. Sul sito del settimanale The Economist c’è uno strumento molto utile, basato sui vari sondaggi usciti in questi mesi, che permette non solo di seguire la matassa attorcigliata formata dalle due linee che rappresentano le intenzioni di voto da gennaio a oggi, ma anche di scomporre i dati per regione di residenza, per appartenenza politica, età, fascia di reddito eccetera. Giocandoci, vengono fuori dei valori sorprendenti: vorrei proprio conoscere, per esempio, le ragioni del 4 per cento di simpatizzanti dell’Ukip (il partito euroscettico) che vorrebbero rimanere nell’Ue.

Ma sono tre dati in particolare a far riflettere. Uno è la frattura netta tra la Scozia europeista e l’Inghilterra euroscettica – come anche, a sorpresa, il Galles (l’Irlanda del Nord, che non appare nell’analisi dell’Economist, si schiera per l’Europa almeno quanto la Scozia, come traspare da un grafico nascosto in questo articolo del Financial Times). L’altro è l’importanza del voto dei giovani, che potrebbero rappresentare l’ago della bilancia se il paese dovesse salvarsi, per un soffio, dal disastro economico ma soprattutto morale della Brexit: stando alla media dei sondaggi più recenti calcolata dall’Economist, nella fascia 18-24 anni il 60 per cento degli intervistati vorrebbe rimanere in Europa e solo il 22 per cento uscire (gli altri non sanno o non rispondono). Tra gli ultrasessantenni, invece, c’è un 58 per cento favorevole al commiato e solo un 32 per cento che si dichiara per la permanenza.

Il ‘problema Europa’ è soprattutto inglese, non britannico in generale, e soprattutto è degli inglesi più colpiti dalla crisi economica

La terza spaccatura, forse quella più rilevante, è quella tra ricchi e poveri. Solo il 38 per cento di chi si definisce professionista o manager vuole il divorzio da Bruxelles, contro il 52 per cento dei colletti blu e dei disoccupati (e tra questi solo il 31 per cento vorrebbe continuare il matrimonio europeo; in tanti non sanno o non rispondono).

Non serve essere Sherlock Holmes per dedurre che il “problema Europa” è un problema soprattutto inglese, non britannico in generale, e che è un problema soprattutto degli inglesi che hanno sofferto di più la crisi economica degli ultimi otto anni. In questa fascia sociale, l’euroscetticismo – che è sempre esistito in Gran Bretagna e di cui negli anni ottanta era portavoce Margaret Thatcher – è stato alimentato da una visione del libero movimento di persone in Europa come una minaccia ai “nostri” posti di lavoro e un rischio al sistema sanitario e previdenziale, che sarebbe spremuto dai cosiddetti benefit tourist (turisti assistenziali).

L’impero non c’è più

In questo ha una grande responsabilità David Cameron, sicuramente uno dei primi ministri britannici più inetti dal 1945 a oggi. Prima ha fatto la voce grossa sull’immigrazione, disegnando scenari apocalittici (per esempio quando fu liberalizzato l’ingresso dei lavoratori romeni e bulgari, all’inizio del 2014), poi ha cercato di correre ai ripari quando si è accorto che il clima di diffidenza verso lo straniero, per non dire di razzismo, che lui stesso aveva alimentato era ormai diventato irrefrenabile, grazie anche all’Ukip di Nigel Farage e all’isterismo della stampa popolare, The Sun, The Daily Mail e The Daily Express in testa. Cameron, oggi, somiglia a uno che si è sparato addosso durante una battuta di caccia (ricordo che nel caso di una vittoria dello schieramento favorevole all’uscita, ha già promesso di dimettersi da premier e da segretario dei tory).

Ma alla base del dilemma amletico dell’Inghilterra ci sono anche altri motivi. L’inglese medio, anche se non ha studiato un granché di storia, sa di appartenere a una nazione che una volta comandava (o almeno sfruttava) più di un quarto del globo. Adesso, fatta eccezione per la City di Londra – un quasi paradiso fiscale che non incide un granché sulla vita di un addetto alla nettezza urbana se non costringendo lei o lui ad abitare sempre più lontano dal centro della capitale con gli affitti più alti d’Europa – questo impero è giunto alla frutta, ed è frutta secca. Ne deriva un risentimento diffuso, alla ricerca di un bersaglio. In questo caso, il bersaglio è facile facile: l’Europa.

In questa campagna (come in molte altre), chi spara un dato grossolano è in vantaggio su chi lo corregge

Di conseguenza è molto probabile che il referendum del 23 giugno sarà determinato più dai pregiudizi che non dai fatti. Mentre scrivo, apprendo che Sarah Wollaston, una parlamentare conservatrice inglese che si era schierata nei ranghi degli antieuropeisti, ha cambiato posizione per protesta contro “la menzogna” sparata dalla campagna per l’uscita che calcola in 350 milioni di sterline alla settimana il contributo britannico all’Unione europea, soldi che per loro sarebbero spesi meglio nell’Nhs, il sistema sanitario nazionale.

La defezione di Wollaston sta già scatenando una guerra di cifre che quasi sicuramente lascerà le posizioni così come erano. In questa campagna (come in molte altre), chi spara un dato grossolano è in vantaggio su chi lo corregge. Un altro esempio: da molti mesi, tra gli euroscettici britannici sta girando su Facebook e Twitter il seguente mantra: “Lord’s prayer: 66 words. Ten commandments: 179 words. Gettysburg address: 286 words. Eu regulations on the sale of cabbage: 26.911 words”. Ovvero: “Padre nostro: 66 parole. Dieci comandamenti: 179 parole. Discorso di Gettysburg: 286 parole. Regolamento della comunità europea sul commercio dei cavoli: 29.611 parole”.

Si tratta di una leggenda metropolitana, che deriva da una legge agricola del governo statunitense degli anni quaranta. Un’indagine della Bbc ha rivelato che perfino il numero “26.911” è diventato un tormentone ricorrente. Ma continuerà a girare, perché la voglia di crederci fregati dai burocrati europei è più forte, ahimè, dell’amore per la verità.

Non è impossibile che la Gran Bretagna (i cui europarlamentari si schierano con la maggioranza in ben sette voti su otto, a dispetto di chi, come Nigel Farage, spaccia il paese come bastian contrario) avrebbe maggiori risorse pubbliche e private a disposizione nel caso di una scissione. Non solo perché il paese risparmierebbe il contributo annuale versato all’Ue ma anche (dicono i leaver) perché non sarebbe più soggetto a fastidiosi regolamenti europei. Come, per esempio, quelli che tutelano la qualità dell’aria che respiriamo o i diritti dei lavoratori. Sganciati da Bruxelles, potremo benissimo scegliere di diventare più ricchi a forza di inquinamento e licenziamenti facili.

L’esempio norvegese

Il “caso Norvegia” è citato molto spesso dai Brexiter – solo che di solito dimenticano di fare presente che questo paese che non fa parte dell’Unione europea ha scelto comunque di applicare 93 dei 100 regolamenti Ue più costosi, un po’ perché la Norvegia è un paese civile e un po’ perché l’applicazione di molte di queste regole è una condizione dettata dal bisogno di fare affari nel resto d’Europa.

Tali considerazioni cadono nel vuoto per la maggior parte dei Brexiter, convinti come sono che l’unico modo di “make Britain Great again” (rendere di nuovo grande la Gran Bretagna) è di “take back control” (riprendere il controllo), per citare due degli slogan sfoggiati in questi mesi da quelli come Boris Johnson, probabile successore di David Cameron nel caso di un vittoria dei leaver. In un recente discorso a Manchester, il latinista biondo ha paragonato i suoi connazionali a “passeggeri di un taxi abusivo con il navigatore satellitare guasto guidato da un autista che non parla bene l’inglese e che ci porta in una direzione in cui, francamente, non vogliamo andare”. Politico arguto che sa fare il giullare quando serve, Johnson sa che la battuta facile è molto più forte del noioso e arido fatto.

Nel corso della campagna pro e contro l’Europa, ci sono stati (in tv, alla radio, nei giornali di qualità e siti di informazione) dei dibattiti colti e consapevoli sulla Brexit. Quello che è mancato è la partecipazione capillare di tutte le classi sociali e soggetti istituzionali che abbiamo visto animare ogni più piccolo paese della Scozia prima del referendum sull’indipendenza. Nel referendum europeo, invece, sta prevalendo non la partecipazione di massa bensì l’impuntarsi di massa.

Il clima che si respira in questi giorni prima del 23 giugno è così poco razionale e il risultato così incerto che potrebbe anche avere un peso l’andamento delle squadre dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda del Nord agli Europei in Francia. Chissà se l’arbitro italiano Nicola Rizzoli, scelto per la prima partita dell’Inghilterra contro la Russia, l’11 giugno, era pienamente consapevole della pesante responsabilità che aveva sulle spalle.

Nel frattempo ho fatto domanda per avere la cittadinanza italiana. Non solo a causa di una possibile Brexit. Il motivo principale è che (in un’altra delle sue trovate geniali) il governo britannico nega il diritto di voto alle elezioni politiche ai cittadini che sono residenti all’estero da più di quindici anni. Dunque sono 17 anni ormai che mi trovo privato di un diritto fondamentale, diritto che acquisirei in Italia (dove risiedo e pago le tasse) solo diventando cittadino.

Ma non vi preoccupate: non dirò agli amici britannici che la legge italiana numero 362 del 18/04/1994, articolo 3, prevede che il procedimento per la richiesta di cittadinanza italiana venga concluso “in 730 giorni”. Sono già abbastanza impauriti dalla burocrazia europea, poverini.

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